Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Italiano Español English Português Dutch Српски
testa sito 2024
GIAPPONE: UOMINI SENZA NOME A MANI NUDE CONTRO IL MOSTRO
I volontari della speranza di cui non viene rivelata l’identità di Maurizio Chierici
Sono cinquanta i guardiani della speranza al lavoro attorno al reattore di Fukushima. Solo numeri, nessun nome. Volontari della morte e le famiglie non devono sapere. Quando le radiazioni impazziscono abbandonano il punto zero e da rifugi più o meno sicuri chiamano casa. Un fisico e tre ingegneri. Degli altri non si sa. Parlano, finalmente. Nel cerchio rosso della centrale i cellulari non funzionano e un telefono normale diventa il sollievo del sapere che fuori la vita continua. Rimpicciolita nelle abitudini, ma continua. Figli a scuola, negozi che la paura lascia senza cose da mangiare, città senza rumori. Non possono spiegare cosa fanno e dove sono: il paese combatte una guerra invisibile e le informazioni diventano segrete. Ore di attesa per sapere se devono tornare ad innaffiare il reattore oppure tutto è perduto. Accendono la Tv nella parodia di una impossibile normalità. Album di disperazioni. La madre che riconosce fra le macerie i corpi dei tre figli: “Finalmente siete qui, cari ragazzi”. Storie così.
Morire per credere ancora nel futuro
ANCHE LE PAGINE dei giornali non raccontano altro, ma i pendolari della paura hanno superato l'emozione appena deciso di giocarsi la vita. Perché? Per chi? Per i figli che non devono appassire lentamente come i nonni di Hiroshima. Per le persone amate e indifese, illuse dalle comodità del mondo nuovo. Forse per l'orgoglio di una tradizione che le meraviglie della tecnologia non hanno ammorbidito. Il vento divino dei kamikaze precipitava i piloti   sulle navi americane che avanzavano alla conquista della patria in ginocchio. Morire per salvarne almeno la speranza. Eroi sciagurati eppure eroi che accendono ancora l'orgoglio di un nazionalismo mai rinnegato anche se negli anni i kamikaze hanno disperso ogni onore: assassini per disperazione, fanatici senza virtù. Non può essere un delirio d'amore la convinzione che trascina al sacrificio l'ingegnere, i fisici e ogni volontario. Se riescono a salvare il reattore, e il dolore di raccogliere macerie e memorie rientra nella normalità  atroce delle tragedie, questa normalità è ormai negata a chi ha scelto di giocarsi la vita per fermare la catastrofe. Cinquanta sconosciuti al centro del ciclone dove, si dice, regni una calma assoluta, spazio dal quale è possibile intravvedere realtà che la tempesta confonde. L'imperatore, il governo, le banche, Toyota, Sony, Suzuki, insomma la grande economia di un paese che conquista i mercati, si aggrappa a questo coraggio. “I giapponesi sono nelle loro mani” e il San Francisco Chronicle prova a dare un nome ai protagonisti che guidano il   sacrificio collettivo: ingegner Shiki Okushi, dottor Meisetsitu, dottor Hosai, dottor Bosha. Ma l'autore ammette l'invenzione: sono solo nomi di poeti molto amati un secolo fa. “Hanno nutrito le illusioni di lettori sconosciuti come i quattro cavalieri del reattore di Fukushima”.
Il mare nella piscina del reattore
CINQUANTA TECNICI al lavoro con le mani. Sembra impossibile, solo mani come nel Giappone dei Samurai.  Non per schiacciare bottoni ma per pompare il mare nella piscina del reattore. Si aggiungono le mani che manovrano i cannoni d'acqua puntati sul maledetto punto zero. Inutili come farfalle i superelicotteri strappati dal vento, piloti che dondolano negli sbuffi radioattivi. Ed è il paradosso del Giappone che entra nelle nostre case con lampi di computer, televisioni trasparenti, telefoni dalle mille sorprese. Il Giappone che disegnava le abitudini di domani. Per salvare l'aria che respira riprecipita nel medioevo della fatica contadina.
IL FATTO QUOTIDIANO 17 MARZO 2011