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guerramadeitaly200Di Francesco Piras, Francesco Ciotti, Eugenio Abruzzese e Albert Ifrim
 
Mentre aumenta il disagio economico e sociale della popolazione, il nostro Paese esegue le richieste di Nato e Iai

“L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Così recita l’articolo 11 della nostra Costituzione. Ma è davvero così? Le ultime decisioni politiche dilaniano ogni parola e ogni valore sancito su questa Carta. Ed è proprio il governo di Mario Draghi a mettere l'ultima pietra tombale. Effettivamente, di recente, il Presidente del consiglio, nella conferenza stampa di presentazione della NADEF, ha dichiarato che “ci dobbiamo dotare di una Difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più nella Difesa di quanto fatto finora, perché le coperture internazionali di cui eravamo certi si sono dimostrate meno interessate nei confronti dell’Europa”. L’obiettivo rimane quello del raggiungimento dell’obiettivo NATO del 2% del Pil annuo. Per l’Italia si tratterebbe di una spesa di circa 40 miliardi all’anno, ben superiore ai 100 milioni di euro al giorno. Cifre, queste, che lasciano attoniti e sbigottiti, soprattutto se si guarda all'evidente e drammatica condizione socio-economica in cui sprofonda ogni giorno di più il nostro Paese. In effetti in Italia oggi, secondo i dati ISTAT, vivono in condizioni di povertà assoluta "poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%)”. Ciò significa che quasi il 10% della popolazione italiana non ha le risorse sufficienti per condurre una vita che possa definirsi accettabile. Per non parlare poi del Meridione in cui il tasso di povertà supera il 42 %. Di fronte a questo scenario la strada intrapresa da questo governo appare molto grave e nefasta. La politica ormai da tantissimi anni non risponde più alle esigenze e ai bisogni dei propri cittadini. E oggi più che mai le decisioni del presidente Mario Draghi e dei ministri che lo circondano rispondono esclusivamente ai diktat dettati dei potentati economici, della finanza, delle multinazionali e soprattutto alla legge del mercato che è anche e soprattutto quello della guerra.

L’impegno del 2% del PIL

Il punto di riferimento dell’Italia rimane la NATO, in termini di dissuasione, deterrenza e difesa. Tale impegno, però, graverà ancora una volta, ed in misura ancora maggiore, sui cittadini. Nel Documento Programmatico Pluriennale 2020-22 (DPP 2020-22), rilasciato dal Ministero della Difesa, viene esplicitato che “il summit di Londra ha costituito un passaggio sostanziale per riaffermare la vitalità della NATO e l’essenzialità del legame transatlantico (…) La nostra appartenenza alla NATO richiede, tuttavia, anche un più puntuale rispetto degli impegni assunti, in termini di contribuzione finanziaria, oltre che di capacità esprimibili e di contributi operativi. La quantità delle risorse investite dai Paesi membri dell’Alleanza, nelle rispettive Difese, è infatti oggetto di un costante e sempre più attento monitoraggio. Stiamo pertanto intraprendendo tutti gli sforzi necessari per avviare un percorso teso ad incrementare gradualmente gli investimenti, con l’obiettivo di allineare, progressivamente, il rapporto tra il Budget della Difesa e PIL nazionale, alla media degli altri Paesi europei”.

Durante il Summit NATO svoltosi in Galles del 2014, i Paesi membri dell’Alleanza Atlantica si erano presi l’impegno ad aumentare le proprie Spese Militari annuali, portandole ad una percentuale del 2% del PIL. Per l’Italia, il cui PIL si aggira attorno ai 2.ooo miliardi di Euro, si tratterebbe di portare i finanziamenti al settore Difesa ad una cifra di circa 4o miliardi di Euro annui. L’equivalente di circa 1oo milioni di Euro al giorno. Ma questo è solo uno dei parametri previsti dal cosiddetto “Burden sharing”, ovvero dalla “condivisione del fardello” delle spese necessarie per sostenere l’Alleanza Atlantica. La NATO, infatti, richiede ai propri Paesi Alleati di tendere, entro il 2024, al raggiungimento dei seguenti obiettivi, le cosiddette “tre C”: 2% delle spese per la difesa rispetto al PIL (“cash”); 20% delle spese per la Difesa da destinare agli investimenti in “major equipments”; contribuire a missioni, operazioni e finanziare altre attività (“contributions”).

I Paesi che già hanno raggiunto la soglia del 2% del PIL da destinare alle spese militari entro il 2024 sono undici (su 30), rispetto ai nove del 2019. Oltre agli Stati Uniti (3,73%), ci sono Grecia (2,68%), Estonia (2,33%), Regno Unito (2,32%), Polonia (2,31%), Lettonia (2,27%), Lituania (2,13%), Romania (2,07%), Francia (2,04%), Norvegia e Slovacchia (2%). In media, nel 2020, la spesa per la difesa dei 30 Paesi NATO ha rappresentato il 2,77% del PIL (1,73% se non si includono gli Stati Uniti, la cui spesa per la difesa supera il 3% del PIL).

Nel Documento Programmatico Pluriennale 2021-2023 (DPP 2021-2023) rilasciato dal Ministero della Difesa, leggiamo che “il razionale di tale accordo si basa sulla necessità di impegnare gli Stati membri a contribuire equamente alle esigenze collettive di difesa dell’Alleanza. Pertanto, il valore del 2% del rapporto spese per la Difesa/PIL non riveste un mero carattere percentuale: esso è connesso all’importanza di conferire adeguate risorse al settore della Difesa che si connota, in modo peculiare, per le necessità di continuo ammodernamento delle capacità militari e le associate esigenze di mantenimento e impiego delle stesse. Ciò è in linea, tra l’altro, con l’Art. 3 del Trattato del Nord Atlantico secondo cui gli Stati membri ‘manterranno e accresceranno la loro capacità individuale e collettiva di resistere a un attacco armato’”. E ancora, “in tale quadro e tenendo conto del contingente quadro economico-finanziario, l’obiettivo nazionale è quello di conseguire, progressivamente, l’allineamento del rapporto budget della Difesa/PIL alla media degli altri Alleati europei. Al riguardo, in occasione della Ministeriale NATO di febbraio, l’Italia ha presentato un rapporto che fa stato di un tendenziale andamento crescente, sia in valore assoluto sia in termini percentuali, del rapporto spese per la Difesa/PIL e che, a fronte di un 1,18% nel 2019, registra un incremento all’1,39% nel 2020 e prevede di attestarsi, in termini percentuali, all’1,41% nel 2021, all’1,39% nel 2022 e all’1,34% nel 2023”.

L’aumento spese militari in Italia e il Recovery Fund

Nel Documento Programmatico Pluriennale 2021-2023 (DPP 2021-2023) rilasciato dal Ministero della Difesa, viene evidenziato come la “rinnovata competizione militare fra gli Stati” si rifletta sulla spesa militare mondiale, “che nel 2020 ha continuato a salire, sfiorando i 2.ooo miliardi di dollari, a fronte di una diminuzione importante del PIL mondiale”. Ovviamente, questo ha fatto sì che anche la quota percentuale della spesa militare su PIL in molti Paesi sia aumentata, in media, di 0,2 punti in un anno in tutto il mondo, attestandosi al 2,4%.

Nel documento, per quanto concerne la programmazione di spesa in ambito militare, si precisa che

“la dotazione complessiva per il 2021 ammonta a 24.583,2 milioni di Euro, pari all’1,41% del PIL previsionale (1.738.106,0 milioni di Euro). Le assegnazioni per il 2022 e per il 2023, invece, ammontano rispettivamente a 25.164,7 milioni di Euro e 23.493,0 milioni di Euro e, riferite ai corrispondenti valori di Pil previsionale (1.835.755,0 milioni di Euro e 1.904.638,0 milioni di Euro), denotano un rapporto pari a 1,37% nel 2022 e 1,23% nel 2023”. Più in generale, “con riferimento al periodo 2008-2023, il bilancio della Difesa a valori correnti registra un incremento del 16,3% passando da uno stanziamento di 21.132,3 milioni di Euro del 2008 a quello di 24.583,2 milioni di Euro del 2021; il rapporto Bilancio Ordinario Difesa/PIL passa dall’1,35% del 2008 al valore di 1,41% nel 2021; tale incremento percentuale per il 2021, sebbene imputabile ad un aumento degli stanziamenti, è altresì condizionato dal valore del PIL previsionale che risente degli effetti indotti dalla crisi economica in atto a seguito dell’epidemia di COVID-19”.

Inoltre, come si può constatare leggendo l’”Elenco progetti del Recovery Fund”, il Ministero della Difesa e dello Sviluppo Economico hanno presentato un elenco di progetti di carattere militare per l’ammontare di circa 30 miliardi di Euro. Il Ministero della Difesa prevede di spendere 5 Miliardi di Euro per applicazioni militari nei settori della cibernetica, delle comunicazioni, dello spazio e dell’intelligenza artificiale. Rilevanti i progetti relativi all’uso militare del 5G. Invece, i progetti del Ministero dello Sviluppo Economico, relativi soprattutto al settore militare aerospaziale, prevedono una spesa di 25 miliardi di Euro del Recovery Fund.

Ad aprire alla possibilità di veder aumentare le spese militari in maniera significativa è stato il Parlamento italiano, a quanto risulta dalle Relazioni definite e votate in questi giorni dalle Commissioni competenti. Nel testo licenziato dalla Camera si raccomanda di “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento ed il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”. Per il Senato “occorre, inoltre, promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca”. Il comparto militare riceverà almeno il 18% (quasi 27 miliardi) dei Fondi pluriennali di investimento attivi dal 2017 al 2034. Le indicazioni inviate al Governo derivano da dibattiti nelle Commissioni Difesa della Camera e del Senato che hanno approvato all’unanimità i pareri consultivi relativi. Ciò evidenzia un sostegno trasversale all’ipotesi di destinare i fondi del PNRR anche al rafforzamento dello strumento militare. Addirittura alla Camera i Commissari hanno concentrato il loro dibattito sulla “opportunità” di accrescere ulteriormente i fondi a favore della spesa militare fornita dal Piano. Da notare come il rappresentante del Governo abbia sottolineato il fatto che i pareri votati “corrispondano alla visione organica del PNRR” dello stesso esecutivo Draghi. Quest’ultimo dunque, ritiene che la ripresa del nostro Paese si possa realizzare anche favorendo la corsa agli armamenti. Nel corso della discussione sono stati uditi rappresentanti dell’industria militare (AIAD, Anpam, Leonardo spa) mentre non sono state prese in considerazione le “12 Proposte di pace e disarmo per il PNRR” elaborate dalla Rete Italiana Pace e Disarmo e inviate a tutte le Commissioni competenti.

Ma, ovviamente, tutto questo è per il nostro bene. L’emergenza causata dal Covid-19 ha comportato pesanti ricadute sul tessuto socio-economico, anche e soprattutto a causa di un quantomeno inefficiente intervento dell’attore pubblico. E, come in occasione di ogni crisi economica, invece che provare a rivedere il nostro sistema di sviluppo, il nostro modo della produzione, ed il nostro paradigma dell’accumulo di capitale, si propone la soluzione facile, che però è, al contempo, anche la più dannosa: la guerra. Nel DPP 2020-22, infatti, leggiamo come “recenti studi affermano che, complessivamente, le imprese del settore Aerospazio, Sicurezza e Difesa generano in Italia lo 0,8% del PIL, con un ritorno occupazionale stimabile in circa 159.000 unità, indotto incluso. Il settore assicura un gettito fiscale di oltre 4,8 miliardi di euro; emerge inoltre che il moltiplicatore totale del valore aggiunto è stimato in 2,6, quindi 1 euro di valore aggiunto delle imprese del settore genera 1,6 euro addizionali di valore aggiunto nel resto dell’economia”. C’è crisi? Non preoccupiamoci. Basta investire ancora più risorse nel comparto militare-industriale, e il gioco è fatto: “In conclusione, le conseguenze economiche negative attese dell’emergenza legata al COVID-19 rinforzano la necessità di orientare risorse economiche importanti verso un settore, come quello della Difesa, che fornisce ampie garanzie in termini di ricadute occupazionali ed indotto, oltre a rappresentare un fondamentale investimento per la sicurezza dei nostri concittadini”, recita ancora il documento.

Aumento spese militari nel mondo

Secondo i dati SIPRI (Istituto di studi sulla Pace tra i più prestigiosi al mondo) di Stoccolma, le spese militari mondiali sono aumentate nel 2020 del 2,6% in termini reali (+9,3% nell’ultimo decennio) e sono ora stimate intorno ad una cifra complessiva di 1.981 miliardi di Dollari. I primi 10 Paesi per spesa militare nel 2020 sono i seguenti (viene esplicitata anche la variazione percentuale rispetto al 2019): USA: 778Mld$, +4,9%, Cina: 252Mld$, +1,9%, India: 72,9Mld$, +2,1%, Russia: 61,7Mld$, +2,5%, Regno Unito: 59,2Mld$, +2,9%, Arabia, Saudita: 57,5Mld$, -10%, Germania: 52,8Mld$, +5,2%, Francia: 52,7Mld$, +2,9%, Giappone: 49,1Mld$, +1,2%, Corea del Sud: 45,7Mld$, +4,9% e l’Italia: 28,9Mld$, +7,5%.

La spesa militare degli Stati Uniti è aumentata per il terzo anno consecutivo: nel 2020 rimangono di gran lunga al vertice della classifica, con il 39% della spesa globale. Le spese militari della Cina sono aumentate per il 26° anno consecutivo (+76% nel decennio 2011-2020) ed anche India e Russia registrano una crescita. Il calo registrato dall’Arabia Saudita è stato il maggiore in termini percentuali tra i primi 15 Paesi della lista, con il Regno Unito ha ottenuto nel 2020 la quinta posizione. I primi 15 Paesi per spesa militare hanno raggiunto la cifra complessiva di 1.063 miliardi di dollari pari all’81% del totale. La spesa complessiva di tutti gli Stati membri della NATO è stata di circa 1.103Mld$, pari al 56% della spesa militare globale. Sei dei 15 paesi con la più alta spesa militare sono membri della NATO: USA, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Canada. Insieme, questi sei paesi hanno rappresentato il 90% (circa 995Mld$) della spesa totale della NATO e il 50% della spesa militare globale. La spesa complessiva dei 27 Pesi membri dell’Unione Europea è stata di 232,8Mld$ (in crescita del 4,6% rispetto al 2019 e in crescita del 24,5% rispetto al 2014). L’Italia rimane nella top 5 europea per spesa militare (dietro Russia, Regno Unito, Germania e Francia) arrivando alla undicesima posizione globale con una spesa per il 2020 che il SIPRI stima in 28,9Mld$ (+7,5% rispetto al 2019), corrispondenti a 25,4Mld€. Il quadro di lettura di base è dunque quello di una crescita decisa delle spese militari italiane dopo un periodo di relativa stasi fino al 2019, con un aumento sostanziale nel 2020.

10% della popolazione italiana in povertà, ma gli investimenti vanno sulla guerra

In un mondo sempre più diseguale e sempre più ingiusto, dove una piccola percentuale di soggetti detiene grandissime quantità di ricchezza, e dove il resto (circa l’80%) della popolazione mondiale vive in condizioni di povertà estrema, o comunque si trova in situazioni di forte disagio sociale e sofferenza economica, questi dati non possono che lasciare attoniti e sbigottiti. Ancora una volta, anzi per l’ennesima volta, si sceglie la guerra e si ripudia la pace, violando l’articolo 11 della nostra Costituzione.

Non che ci si aspettasse qualcosa di diverso da questo governo e dal Presidente del consiglio Mario Draghi, visti e considerati gli ambienti economici e finanziari da cui proviene. In una situazione in cui, oggi, solo in Italia, si registra un tasso di povertà e di disagio sociale drammaticamente in aumento, si sceglie di investire in nuovi armamenti e in nuovi strumenti di morte e di distruzione. Una vergogna che viene esplicitamente avallata, anche con il silenzio, dalla maggior parte dei rappresentanti politici che siedono nelle aule del nostro Parlamento.

SECONDA PARTE

Il ruolo dell’Italia nel nuovo scenario geopolitico internazionale e in un possibile nuovo conflitto mondiale

Nel Documento Programmatico Pluriennale 2020-2022, ed in quello più recente, il DPP 2021-2023, viene esplicitato il compito e l’importanza che l’Italia riveste nello scenario geopolitico e della “Difesa” internazionale. Punto di riferimento o, per meglio dire, di sudditanza, rimane la NATO. Restano centrali le missioni internazionali e la sicurezza interna, soprattutto a causa del possibile “aumento delle minacce” e della “crescente instabilità” dovuta all’emergenza pandemica. Insomma, un attacco contro i popoli. Oltre alle 90 bombe atomiche statunitensi già presenti sul territorio italiano, arriveranno nuove dotazioni di missili cruise per armare i sottomarini U-212 e le fregate FREMM.

Il nuovo scenario internazionale

Lo scenario internazionale, oggi più che mai, è in continua mutazione. E le “minacce” alla sicurezza ed alla stabilità continuano a crescere, stando a quanto viene riportato nel DPP 2020-22: “Alla luce delle recenti evoluzioni dello scenario internazionale, la complessità delle sfide con cui dovremo confrontarci nei prossimi anni si presenta particolarmente impegnativa. Il prossimo futuro dovrà pertanto essere contraddistinto da un cambio di passo, in termini di avanguardia tecnologica, interoperabilità e digitalizzazione, per dotare lo Strumento militare nazionale di capacità e livelli di prontezza adeguati a fronteggiare le nuove minacce, comprese quelle ad oggi soltanto ipotizzabili. Per garantire la sicurezza della Nazione, in stretta cooperazione con gli Alleati, abbiamo infatti bisogno di Forza Armate ancor più moderne e in grado di operare in tutti i domini, allargando sempre di più il campo d’azione anche all’ambiente cibernetico ed allo spazio, ed in tutti gli scenari, con particolare attenzione alla minaccia ibrida. In questo senso, si manifesta come crescente l’esigenza di incrementare ed adeguare la capacità di Sorveglianza e di Comando e Controllo delle Forze”.

L’Italia, dunque, continuerà a giocare un ruolo fondamentale nella strategia dell’Organizzazione Atlantica, soprattutto per quanto riguarda le missioni internazionali. La stagione di svolgimento di queste ultime, infatti, è tutt’altro che conclusa: “Restano anzi essenziali, per citare solo le principali: l’impegno nazionale per la stabilizzazione della Libia e, più in generale, dell’area del Sahel, le operazioni della NATO nei Balcani occidentali, nella regione mediterranea allargata, in Afghanistan, così come fondamentali per il mantenimento della sicurezza sono le missioni a guida europea o delle Nazioni Unite e quelle basate sull’adesione alle cosiddette “coalizioni di volenterosi”, per eradicare definitivamente le strutture dello Stato islamico”. L’Italia ha certamente un ruolo importante, ma è necessaria ovviamente una condivisione ed organizzazione a livello europeo ed atlantico: “La portata delle sfide che caratterizzano l’attuale contesto di riferimento travalica, tuttavia, il raggio d’azione e le capacità dei singoli Paesi. La forte vocazione europea ed euro-atlantica, che rappresenta una priorità nella politica estera del nostro Paese, si riflette quindi coerentemente anche nella politica di Difesa, che vede nella NATO e nell’Unione Europea i pilastri del nostro sistema di alleanze, indispensabile per assicurare al Paese la necessaria cornice di sicurezza a fronte di minacce che, sempre di più, assumono nuove e più complesse forme e modalità operative”.

Non solo. Le problematiche che l’Italia si troverà ad affrontare sono anche e prima di tutto interne. Infatti, “lo scenario internazionale non presenta (…) alcun tendenziale miglioramento. Al contrario, la pandemia sta ulteriormente aggravando contesti già complessi, sotto il profilo economico e sociale, e rischiamo pertanto di assistere ad un aumento delle minacce e ad una crescente instabilità, che associata alla dinamica demografica e alle condizioni di sottosviluppo che caratterizzano buona parte dell’area di interesse nazionale, configurano tutte le premesse per generare e cronicizzare conflitti anche armati, con inevitabili ricadute sulla nostra sicurezza”.

Recita così il DPP 2020-22, nel quale si afferma anche che, “in aderenza alle missioni ed ai compiti fondamentali assegnati alle Forze Armate, dalla carta costituzionale e dalla legge, e con particolare riferimento alla difesa degli spazi euro-atlantici e al contributo per la realizzazione della pace e della sicurezza internazionale, l’Italia manterrà un ruolo di primo piano nelle operazioni di risposta alle crisi, attraverso un equilibrato impiego di tutte le componenti dello strumento militare, confermando l’apprezzato e significativo apporto alla stabilità delle aree di interesse”.

La “difesa” missilistica italiana ed i recenti sviluppi

Secondo le indiscrezioni rilasciate al mensile Rid dall’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, l’Italia si doterà di nuovi missili cruise dalla gittata di oltre 1000 Km per armare i sottomarini della classe U-212 e le fregate Fremm posizionate nel Mediterraneo. Si tratterebbe di una riorganizzazione delle nostre forze armate in chiave offensiva, che era già stata anticipata dall’annuncio sulla fornitura dei primi droni armati per l’Italia, esplicitato nel DPP 2021-23. Con un programma di spesa pari a 168 milioni di euro, il ministero della Difesa ha dato conferma per armare i droni classe Male Reaper italiani. Questi ultimi sono stati i primi velivoli ad essere utilizzati dall’aviazione militare statunitense nella guerra in Afghanistan che, stando ai report stilati da Airwars, dal 2001 ad oggi avrebbero provocato la morte di almeno 22.000 civili, con un margine fino a 48.000. Un fatto gravissimo, che pone seri interrogativi su quali realmente siano le intenzioni e gli obiettivi militari del nostro Paese. Secondo lo stesso Giuseppe Cavo Dragone, i nuovi sistemi di armi, oltre che a garantire un maggior peso strategico in questioni come quella dei giacimenti contesi con la Turchia a largo di Cipro, saranno “fondamentali per affrontare le nuove fortezze elettroniche realizzate soprattutto dai russi”, cioè aree protette da schermi radar e da batterie missilistiche anti-nave caratterizzate da una elevata potenza nucleare. L’Italia, dunque, si sta posizionando per uno scontro diretto con la Russia col benestare della NATO e, mentre a parole viene paventata una logica difensiva rispetto all’espansione di una ipotetica minaccia esterna, si continua a provocare Mosca con imponenti manovre militari ai suoi confini. Dal 22 settembre in effetti, nelle acque del Mar Nero e del mare d’Azov, si stanno tenendo le esercitazioni internazionali “Joint Efforts 2021" a cui prendono parte delegazioni di 15 paesi alleati del blocco NATO, tra cui non poteva mancare il nostro Paese. Vi partecipano ben 12.500 militari, 85 carri armati, 420 corazzati, 50 pezzi d’artiglieria, 20 navi da guerra e 30 elicotteri. Abbiamo dunque scelto di stare nella prima fila delle cannoniere euro-atlantiche contro il resto del mondo. Non si tratta di un’iniziativa del nostro Paese a difesa dei suoi interessi, ma del solito vecchio iter: seguire le orme guerrafondaie del padrone d’oltreoceano. Gli oltre 1000 km di proiezione del nostro potenziale offensivo ora consentono di alzare la posta in gioco, anche contro l’Iran. Fatti alla mano, l’eventualità di una guerra si fa sempre più vicina.

Tale decisione non è sicuramente frutto del caso, ma nasce da influenze e da documenti ben precisi, ideati e redatti da importanti centri di ricerca, think-tank, gruppi di interesse, che sempre influenzano le decisioni dei governi e dei principali attori pubblici, soprattutto occidentali. Uno di questi è lo IAI, l’Istituto Affari Internazionali fondato nel 1965 su iniziativa di Altiero Spinelli. Un documento rilasciato proprio dallo IAI il 5 aprile 2021, e dal titolo “Europe’s Missile Defence and Italy: Capabilities and Cooperation” (“La difesa missilistica europea e l’Italia: capacità e cooperazione”), è chiarificatore in tal senso. In questo documento viene esplicitato come, a causa del mutamento repentino dello scenario internazionale, l’Italia debba necessariamente dotarsi di un proprio arsenale missilistico in grado di stare al passo con i tempi. Inoltre, l’esposizione dell’Italia nel contesto geopolitico, militare e della guerra è massima: “La protezione del suolo nazionale per l’Italia è particolarmente difficoltosa, a causa della sua prossimità con il Nord Africa e con il Medio Oriente, considerando anche il fatto che Roma è gradualmente entrata nel raggio d’azione dei missili iraniani e che gli arsenali libici sono stati oggetto di contrabbando dopo il 2011. L’Italia è inoltre una delle poche nazioni europee che ospitano armi nucleari tattiche statunitensi, e questo rende automaticamente il Paese un possibile bersaglio di potenziali attacchi missilistici russi contro bombardieri americani a doppia capacità convenzionale e nucleare”.

Più in generale, nel documento vengono esplicitati dieci punti ai quali l’approccio italiano alla difesa dovrebbe ispirarsi: “In primo luogo, la Nato rimane la chiave di volta strategica ed operativa delle difesa missilistica dell’Europa (…) Il secondo punto concerne la cooperazione europea che, portata avanti principalmente ma non soltanto tramite le iniziative Ue, è diventata il principale canale per lo sviluppo efficace e sostenibile di robuste capacità di difesa missilistica”. Dunque, NATO e UE rimangono punti cardine della politica italiana, proprio come ribadito da Mario Draghi nei primi giorni del suo mandato presidenziale iniziato a febbraio di quest’anno. Il documento continua, evidenziando che, “in terzo luogo, al fine di affrontare le minacce missilistiche attuali e future, è necessario disporre di una serie di sensori in grado di trovare, identificare e tracciare i missili avversari”. Ci si sta dunque preparando a chiari ed inequivocabili scenari di guerra, in cui missili e testate ipersoniche, sicuramente termonucleari, sarebbero al centro di tali eventi. E ancora, il documento procede con l’elenco dei “punti chiave”, individuando la “dimensione spaziale della difesa missilistica” come fondamentale, ma anche mettendo l’Italia in guardia circa i recenti sviluppi delle armi ipersoniche. Ovviamente, “la continuità degli investimenti italiani è una priorità che influenza profondamente la posizione del Paese”; inoltre, occorre mettere in campo “un dialogo tempestivo, sistematico e costante tra le Forze Armate e l’industria, affinché possano lavorare insieme alla valutazione delle minacce, alla determinazione dei In requisiti, ai rischi e alle opportunità presentate dallo sviluppo di nuove capacità”. Gli ultimi due punti citati nel documento consistono nel fatto che, “quanto a difesa missilistica, le forze armate italiane necessitano di un salto di qualità in termini interforze”, e che, per l’Italia è fondamentale “sfruttare i vantaggi offerti dalla sua posizione geografica al fine di mitigarne gli svantaggi”. In generale, “soltanto adottando un approccio alla difesa missilistica più integrato, ad ampio spettro e a lungo termine, l’Italia potrà affrontare in modo efficace i dieci punti appena descritti. Tale approccio dovrà partire dal riconoscere la rilevanza della difesa missilistica per la sicurezza nazionale, la difesa collettiva della NATO e la cooperazione in ambito UE, nonché per le capacità industriali e tecnologiche del Paese”.

L’Italia si trova in prima linea in un possibile nuovo conflitto mondiale

In questo momento quindi, l’Italia si trova in prima linea nello scontro contro Russia e Cina. Ed è preoccupante quanto emerso anche da numerosi test e simulazioni i quali mostrano come il nostro Paese sarà probabilmente uno dei primi bersagli ad essere colpiti nell’eventualità di una guerra. Per questo motivo la corsa agli armamenti intrapresa dal governo Draghi sotto direttiva della Nato e quindi degli Stati Uniti d’America, provoca grande inquietudine per le sorti future di ognuno di noi.

Quale scenario si prospetta davanti? Permetteremo davvero, dopo le esperienze storiche passate e dopo le molteplici guerre e genocidi commessi negli ultimi decenni in Medio Oriente e in Africa, che scoppi un conflitto globale nucleare in grado di annientare ogni nazione del mondo? È quindi urgente l’uscita immediata dell’Italia dalla Nato e la dichiarazione ufficiale della nostra neutralità al fine di instaurare la pace e non lo scontro permanente. Così si darebbe concretamente vita all’articolo 11 della nostra Costituzione, per lunghissimo tempo dilaniato da qualsiasi governo, indipendentemente di destra o di sinistra, che si sia insediato a partire dal 1948.

TERZA PARTE

Lo IAI (Istituto Affari Internazionali) e i think-tank: chi direziona le politiche e i governi dell’Occidente?

Chi decide in Occidente? Da dove arrivano gli ordini, in Occidente? Da quali ambienti provengono le direttive, che poi puntualmente vengono applicate all’interno dei singoli Paesi nazionali? Attraverso quali metodologie? Delle risposte a queste domande forse le possiamo trovare nel mondo dei think-tank, cioè dei cosiddetti “serbatori di pensiero”: si tratta di società, organismi, istituti tendenzialmente indipendenti dalle forze politiche nazionali il cui scopo è quello di analizzare ed elaborare programmi e strategie governative, economiche, sociali, industriali, commerciali e militari.

Una chiave di lettura interessante per comprendere la realtà che ci circonda. La recente dichiarazione dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, secondo il quale, l’Italia si doterà di nuovi missili cruise dalla gittata di oltre 1000 Km, non nasce a caso, ma è il frutto dei desiderata e delle indicazioni della IAI, l’Istituto Affari Internazionali. Quest’ultimo rappresenta proprio uno “serbatoio di pensiero” dal quale provengono le indicazioni adottate da tutti i governi occidentali, in ogni ambito della gestione della cosa pubblica. Il documento rilasciato dalla stessa organizzazione il 5 aprile 2021, dal titolo “Europe’s Missile Defence and Italy: Capabilities and Cooperation” (“La difesa missilistica europea e l’Italia: capacità e cooperazione”), è chiarificatore in tal senso. Ma che cos’è lo IAI e in che modo tale organizzazione è relazionata agli Stati Uniti, all’Inghilterra, alla NATO ed all’Unione Europea?

Altiero Spinelli, lo IAI e il progetto di Unione Europea

L’Istituto Affari Internazionali (IAI), di cui abbiamo parlato in un precedente articolo, è stato fondato su iniziativa di Altiero Spinelli nel 1965. Lo IAI è l’omologo del Council on Foreign Relations (CFR) americano e del Royal Institute of International Affairs (RIIA) inglese, due think-tank (“serbatoi di pensiero”) che guidano la politica estera anglo-americana. Storicamente, tra i principali membri del CFR, la cui sede si trova alla Harold Pratt House di New York, si annoverano quasi tutti i direttori della CIA, i Segretari della Difesa USA, i rappresentanti delle maggiori multinazionali e delle principali banche del mondo, gli impiegati dei più importanti mezzi di comunicazione del pianeta. Nel RIIA, invece, è facilissimo incontrare i più rinomati esponenti mondiali di banche, multinazionali, media, Difesa, esercito, Commissione Europea, NATO. Spesso e volentieri, alle riunioni del RIIA, partecipano anche i ministri dell’Economia e delle Finanze italiani, ancor prima di venire nominati. È il caso, per esempio, di Pier Carlo Padoan. Una coincidenza, forse, ma come scrive il giornalista d’inchiesta Francesco Amodeo nel libro “La Matrix Europea”, “esattamente un anno prima di ricevere l'incarico di ministro dell’Economia, fu invitato a partecipare ad una riunione dai membri del RIAA in data 25 gennaio 2013. Il tema della riunione? ‘L’Economia italiana: La chiave del futuro dell’Unione Europea’”. Caso vuole che il 21 febbraio 2014, Padoan diventò Ministro dell’economia italiano, prima sotto Renzi, per poi proseguire con il suo mandato con il governo Gentiloni.

Altiero Spinelli, come fondatore anche dell’Unione Europea, nel suo “Diario europeo” ha dato indicazioni chiare ed inequivocabili circa i finanziatori del “sogno dell’Europa dei popoli”. Spinelli viene considerato forse il più importante padre fondatore dell’Unione europea: in esilio a Ventotene ed in collaborazione con altri socialisti, elaborò il Manifesto per un’Europa Libera e Unita. È nata davvero così l’Europa che conosciamo oggi?

Dalla lettura del Diario di Spinelli si scoprono i suoi continui viaggi a Washington per cercare fondi per la realizzazione del suo progetto. Egli incontrò Donovan, Allen Dulles, rappresentanti di spicco della Ford Foundation e della Rockefeller Foundation, vertici della CIA e Kalergi: "Alle 4 ho visitato Donovan (Cia, Acue, Gladio, ndr). Era presente anche Hovey, Executive Director dell’ACUE che avevo già visto… Donovan si è impegnato formalmente a cercare fondi. Ha approvato la mia decisione che sia io a dirigere l’operazione. Era completamente scettico sui governi… Praticamente ho l’appoggio dell’USIA, della Ford Foundation e dell’ACUE. Più di questo non potevo sperare… Monnet ha la scelta di stare con me o sparire". Altri esponenti del famoso Manifesto di Ventotene presero le distanze da Spinelli, come si evince dalle righe successive, probabilmente perché si resero conto che il progetto da loro elaborato 10 anni prima stava prendendo tutt’altra direzione rispetto alla realtà: "Ernesto Rossi mi ha detto che non vuole venire al congresso e che non vuole essere nella direzione del MFE (Movimento Federalista Europeo). Cardini non vuole più essere eletto al cc. In fondo è quello che desideravo". Il 17 giugno 1961, Spinelli incontrò anche il fondatore della Commissione Trilaterale Zbigniew Brzezinski, ed uno degli autori del testo anti-democratico "The crisis of democracy", Samuel Huntington, il quale scrisse che "un eccesso di democrazia significa una carenza di governabilità; “una facile governabilità lascia intendere una democrazia difettosa"; "il funzionamento efficace di un sistema politico democratico richiede, in genere, una certa dose di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi. In passato, ogni società democratica ha avuto una popolazione marginale, di dimensioni più o meno grandi, che non ha partecipato attivamente alla politica. In sé, questa marginalità da parte di alcuni gruppi è intrinsecamente antidemocratica, ma ha anche costituito uno dei fattori che hanno consentito alla democrazia di funzionare efficacemente". Spinelli dimostrò di avere piena consapevolezza dei veri obiettivi delle oligarchie finanziarie in tema Unione Europea e Moneta Unica; egli, parlando di Robert Marjolin, partecipante più volte alle riunioni del Gruppo Bilderberg, membro della Commissione Trilaterale, Commissario europeo per gli Affari Economici e Monetari e Segretario generale dell’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea, disse che "scopo di Marjolin è di spennare le sovranità nazionali senza farle gridare". L’11 giugno 1965, Marjolin ricevette una comunicazione del Dipartimento di Stato USA che lo invitava a "portare avanti in segreto" i progetti di Unione monetaria. Zbigniew Brzezinski disse che “l’Europa è la fondamentale testa di ponte geopolitica dell’America in Eurasia. Il ruolo dell’America nell’Europa democratica è enorme”. Unione Europea, moneta unica europea e NATO, dunque, rappresentano i due principali strumenti di colonizzazione USA in questo ultimo secolo. Un documento del gruppo Bilderberg del 1958 parla di come una unione monetaria europea potesse essere l’unico strumento per il controllo dei Parlamenti nazionali. Missione compiuta: oggi, infatti, il potere dei singoli parlamenti nazionali è stato completamente annullato dagli esecutivi. In più, il Parlamento italiano non decide più da tempo sulla vita della nazione, poiché le decisioni importanti vengono prese in sede europea. In tale contesto, l’organo più potente è sicuramente la Commissione, mentre il Parlamento ha un ruolo puramente coreografico. Secondo l’ex parlamentare europeo Magdi Cristiano Allam: “Il parlamento europeo è vero che è rappresentativo dei popoli europei, perché si viene eletti con il voto di preferenza (…) Ma il parlamento europeo è l’istituzione che non conta quasi nulla, quasi nulla tra le tre istituzioni dell’Unione Europea (…) E’ la Commissione Europea che ha i poteri, i veri poteri… Sia il potere esecutivo, perché la Commissione è il governo dell’Unione Europea, quindi il Presidente della Commissione è il capo del governo dell’Unione Europea. Ma la Commissione Europa ha anche il vero potere legislativo, perché le proposte di legge nascono in seno alla Commissione Europea, che poi le invia al Parlamento, il Parlamento le esamina, le può emendare, le può modificare, può approvarle e può bocciarle (…) Le leggi che ci governano non sono espressione del Parlamento europeo, sono espressione della Commissione Europea, e il fatto che l’80% delle leggi nazionali siano la semplice trasposizione di direttive di regolamenti europei nati in seno alla Commissione Europea, che ha un esercito di 40 mila dipendenti che non sono eletti da nessuno e che non rispondono del loro operato se non alle potenti lobby che sono pienamente legittimate in seno al Parlamento Europeo (…) ecco perché non saranno le elezioni europee a cambiare il nostro destino, ma sarà la presenza di una vera e propria volontà politica sovranista (…) Abbiamo perso al 100% la sovranità monetaria, abbiamo perso l’80% della sovranità legislativa, abbiamo ipotecato la nostra sovranità giudiziaria, perché le sentenze emesse dalle corti europee prevalgono sulle sentenze emesse dai tribunali italiani, abbiamo perso la nostra sovranità in materia di sicurezza e di Difesa, abbiamo perso anche la sovranità alimentare che l’Italia aveva, la sovranità energetica noi non ce la avevamo, ma avevamo un maggiore spazio di operatività prima che fossimo costretti ad attenerci alle regole soprattutto di natura finanziaria dell’Unione Europea”.

Democrazia dove sei?

È evidente, ormai, come le strutture portanti della nostra democrazia siano state rimosse da tempo. Certo, ne è rimasta la vestaglia, che continuamente ci viene mostrata attraverso l’utilizzo sfrenato di termini quali “progresso”, “libertà”, “transizione verde”, “svolta green”. Ma l’essenza stessa della democrazia, che parte dall’informazione, per poi concretizzarsi attraverso il processo di auto determinazione dei popoli, è sparita da un pezzo. E questo è anche, e soprattutto, responsabilità nostra, come cittadini. Con il voto, con le comodità, con il silenzio e con la tendenza a delegare siamo stati complici (e lo siamo tutt’ora) dei nostri stessi governanti. Oggi più che mai, dunque, serve scendere in campo, con i mezzi che ognuno di noi ha a disposizione. È nostro dovere denunciare le azioni nefaste di questo governo, che invece di ripudiare la guerra (art. 11 della Costituzione) la alimenta e la finanzia. È necessario chiedere a gran voce e pretendere l’uscita dell’Italia dalla NATO per rimanere nella neutralità e processare chi per anni ha attentato alla nostra Carta costituzionale. Servono le forze di tutti, perché il re è nudo, ma è anche impazzito. Ed ha il timone in mano e per questo va fermato.

21 Ottobre 2021