Di Jamil El Sadi

Credo in Cristo perché si è fatto uomo e l’ho visto. Ho visto innumerevoli volti del Cristo in Palestina. Assume forme e volti sempre diversi: un signore anziano; un bambino che non ha paura di guardare in faccia un fucile; una donna che mette il suo corpo davanti ad un blindato per proteggere i propri figli.

Credo in Cristo perché l’ho visto tra la gente misera e povera; nei sobborghi dimenticati dal Padre; rovistando tra le carcasse della pattumiera per racimolare un pasto assieme ai senza tetto; l’ho visto spalare la merda dalle fognatura di un campo profughi; o elemosinare uno shekel e ricevere soltanto uno sputo; l’ho visto sporcarsi le mani mentre ricostruiva una casa distrutta da un bombardamento; l’ho visto raccogliere la frutta e la verdura a terra dopo che un soldato ha ribaltato una bancarella nel suq di Betlemme; l’ho visto lanciare pietre contro un muro alto 12 metri bestemmiando il Dio Denaro; l’ho visto aizzare le proteste vestito con i jeans strappati, i piercing e i tatuaggi.

Credo in questo Cristo, perché l’ho visto. Ed è quello a cui crede la gente qui in Palestina, anche se non è cristiana, perché sanno scindere la figura religiosa da quella storica. Non un santo, ma un rivoluzionario che sotto la corona di spine veste la kefya della resistenza; che lacrima sangue ma tiene gli occhi aperti e lo sguardo verso l’alto perché sa che prima o poi questa terra sarà libera dalla tirannia.
Credo in Cristo perché è Rivoluzione (“Thawra” ثورة) e Resistenza (“Muqawima” مقاومة). E qui in Palestina si vede e si tocca.