LA MIA RABBIA. LA MIA SETE DI GIUSTIZIA

DAL CIELO ALLA TERRA

HO SCRITTO IL 10 AGOSTO 2010:

LA MIA RABBIA. LA MIA SETE DI GIUSTIZIA.
L’HO DETTO E LO RIPETO, L’ANTICRISTO LO RAPPRESENTANO I VENDITORI DI MORTE, GLI SPECULATORI DELLA VITA UMANA.
POVERA ITALIA, FINITA ANCH’ESSA NEL GIRONE INFERNALE DEI PAESI CHE VENDONO LA MORTE.
PERÒ LA MIA RABBIA ARRIVA AGLI ESTREMI QUANDO VEDO UNA CHIESA CATTOLICA, UN VATICANO E I SUOI PRINCIPI CHE PER PAURA, IPOCRISIA E COMPLICITÀ NON DICONO NULLA AI COMMERCIANTI DELLA MORTE.
GUAI! GUAI A VOI FARISEI IPOCRITI! DISSE IL GIOVANE NAZARENO FIGLIO DI DIO.
GUAI, GUAI A VOI, RAZZA DI VIPERE, PRINCIPI DELLA CHIESA, DICO IO. UNA VOCE CHE GRIDA NEL DESERTO.
A VOI VENDITORI DELLA MORTE RIPETO: STATE ATTENTI!
IDDIO VEGLIA E MISURA, GIORNO PER GIORNO, ORA PER ORA IL TEMPO DELLA SUA SANTA GIUSTIZIA.

GIORGIO BONGIOVANNI

Sant’Elpidio a Mare (Italia)
10 agosto 2010

LE BOMBE PROIBITE CHE L’ITALIA CONTINUERÀ A VENDERE
Al via la convenzione dell’Onu, ma il governo di B. non firma
di Maurizio Chierici

Il 10 agosto la convenzione Onu lega le mani ad ogni paese del mondo. Proibito fabbricare, esportare e conservare in depositi più o meno segreti le bombe a grappolo, cluster munition. Polverizzano come le altre ma non è tutto: disperdono 150, 170 frammenti che non sono schegge qualsiasi, bensì trappole micidiali, colorate per incuriosire chi fruga fra le macerie o le ritrova fra l’erba dei campi.
Appena sfiorate scoppiano “più efficaci delle mine-uomo”. Cambiano la vita e ogni anno a migliaia di bambini: chi muore e chi resta per sempre diverso. Gino Strada e la sua Emergency sono testimoni del disastro dell’Afghanistan: gambe artificiali paracadutate in territori pericolosi galleggiano nell’aria come fantasmi di plastica.
Il documento siglato da 30 paesi
PER RENDERE obbligatoria la convenzione internazionale proposta dal segretario Onu, Ban Ki-moon era necessaria l’adesione di almeno 30 governi. Gli ultimi a firmare “per senso di civiltà” sono stati Burkina Faso e Moldavia. L’Italia se ne è dimenticata. Come sempre Russia, Stati Uniti, Cina, Pakistan, Israele stanno a guardare con la diffidenza di chi non sopporta il moralismo fanatico dei pacifisti anche se Obama è impegnato in una moratoria che frena la deregulation del guerriero Bush. Proibisce l’esportazione delle armi non convenzionali (oltre alle cluster, missili al fosforo bianco, napalm, eccetera) con l’ordine di distruggere prima del 2018 gli 800 milioni di bombe a grappolo stoccate negli arsenali Usa. Come mai l’Italia non firma? Due anni fa, due nostri ministri a Oslo avevano appoggiato l’iniziativa. “Siamo tra i primi cento paesi a pretendere una guerra più umana”, morale che fa sorridere perché di umano nelle guerre non c’è niente, eppure sembrava un primo fiato di buona volontà. Ma se ne sono dimenticati. Tante le spiegazioni. Turbamenti politici che annegano la memoria o convenienza a non mettere in crisi le industrie delle armi che continuano a volare. Nel 2008 (ultimi numeri disponibili) il valore delle autorizzazioni concesse dal governo per vendere ad altri paesi carri armati, elicotteri, bombe di ogni tipo, missili e strumenti sofisticati d’attacco, era cresciuto del 35 per cento: 5,7 miliardi di euro. Tendenza confermata nel 2009. Fra un po’ sapremo quanti affari in più. La Turchia che schiaccia i curdi è il cliente d’oro: un miliardo e 93 milioni. Poi Francia e tanti paesi fra i quali Libia, il Venezuela di Chavez, Emirati Arabi Uniti, Oman, Kuwait, Nigeria. Le imprese autorizzate dal nostro ministero della Difesa sono 300. Tre le banche privilegiate nell’intermediazione: Banca Nazionale del Lavoro,  Deutsche Bank e Societè Generale. In coda Banca Intesa ed Unicredit. Milioni di provvigioni da un passaggio all’altro. A parte la lista nera dei paesi ai quali è proibito vendere direttamente – anche se il gioco ambiguo delle triangolazioni funziona   da quando Israele comprava in Europa ed esportava nel Sud Africa dell’embargo disegnato per sgonfiare il razzismo di stato – e a parte un elenco di governi che impongono semi libertà sdegnate dalla carte delle Nazioni Unite, ecco il macchia-vello degli aiuti umanitari. Se l’Italia o altre nazioni sono presenti per soccorrere la disperazione delle popolazioni, le armi scivolano senza suscitare censure.
Se nel Lazio si producessero ancora?
ARMI ITALIANE in Libia dove (Amnesty e Human Rights Watch) chi pretende libertà d’espressione, di associazione o di pensiero può essere condannato a morte. Per non parlare dell’accoglienza disumana ai profughi in fuga dalle dittature di Sudan ed Eritrea. Vendiamo alla Thailandia nella quale le camice rosse dell’ex presidente e l’esercito del presidente in carica si affrontano sconvolgendo città e campagne. A quali delle due fazioni vendiamo? Per non parlare di Arabia Saudita, Emirati, Oman dove le donne restano ombre clandestine. Human Rights fa sapere dei depositi di bombe a grappolo di casa nostra: “L’Italia continua a nasconderne la quantità”. Fra le imprese che hanno prodotto le cluster e non chiariscono se continuano e quante bombe ammucchiano in magazzino, c’è la Simmel Difesa di Colleferro. Vende a La Russa munizioni per i veicoli corazzati in Afghanistan. Anni fa, mentre l’opinione pubblica si agita davanti allo strazio di donne e bambini bruciati dal fosforo bianco americano a Fallujia o israeliano a Gaza, le bombe a grappolo dell’Afghanistan scandalizzano televisioni e giornali e la Simmel censura il suo catalogo on line: spariscono le munizioni proibite. Ma un’inchiesta di Rai News 24 e informazioni delle Ong che tutelano i diritti umani riempiono il vuoto: la produzione continua. Se fosse vero, brivido d’orrore. Perché esistono, sparse nel mondo, 100 milioni di bombe a grappolo in esplose. Vendere fa bene agli affari, ma quale futuro stiamo immaginando? Il silenzio continua, l’Italia non firma.
La responsabilità non può esaurirsi nell’ambiguità dei politici o negli affari d’oro dei dottor Stranamore dell’industria pesante: i sindacati dove sono?  Nel 1984 in un dibattito con Luciano Lama, qualcuno ha suggerito di portare in gita nella Beirut appena macinata dai cannoni di Sharon, gli operai dell’Oto Melara. Ieri come oggi Cgil-Cisl-Uil evitavano di collegare il “lavoro che rende liberi” alla libertà che quel lavoro brucia nella vita di popoli lontani. Lama si è arrabbiato: “Convertiremo i carri armati in locomotive, dateci tempo”. Il tempo passa e alla Simmel di Colleferro nessuno protesta. Nei giorni dei posti perduti, un posto sicuro val bene qualche distrazione.
IL FATTO QUOTIDIANO 6 AGOSTO 2010

I BUCHI NERI DEL PIANETA

Oltre un miliardo di persone nel mondo vive con meno di un dollaro al giorno e oltre due miliardi  con meno di due. Metà di loro sono bambini. 1,1 miliardi non hanno accesso all’acqua potabile e 2,6 miliardi sconoscono le minime condizioni sanitarie. La globalizzazione ha aumentato gli squilibri, dando origine a numerosi focolai di povertà. Il quotidiano “EL PAIS” si è recato in alcuni dei centinaia di buchi neri nel pianeta, in diversi punti cardinali: Bangladesh, Gaza, Haiti e nella Repubblica Centrafricana. Quattro storie di miseria umana che saranno pubblicate nel mese di agosto.
Javier Ayuso

GAZA: UN BLOCCO TOTALE E DISUMANO
Vivono imprigionati in un territorio di 365 chilometri quadrati (un quinto della provincia di Guipuzcoa, la più piccola della Spagna), circondato da enormi mura alte otto metri e da un blocco navale a sole tre miglia dalla costa. Gli assedianti israeliani li hanno sottoposti ad un blocco totale e disumano che impedisce l’ingresso o l’uscita di persone e merci, in risposta agli oltre 8000 razzi lanciati da Gaza contro i coloni ebrei negli ultimi otto anni. Gli 1,6 milioni di abitanti, di cui un milione sono profughi, vivono imprigionati da parte del governo di Israele e dall’autorità di Hamas (che l’Occidente considera un’organizzazione terroristica), scelta da loro nel 2006.
Raggiungere Gaza è come passare dal primo al terzo mondo in pochi chilometri. Bisogna arrivare in aereo a Tel Aviv, capitale dello Stato di Israele, spostarsi in macchina a Gerusalemme e  procurarsi un visto per recarsi nella Striscia di Gaza. Successivamente un taxi Mercedes ti porta al paso di Ben Hanun, un viaggio che ti fa sentire come in qualunque paese del Mediterraneo europeo. Buone autostrade, transitate da auto occidentali, lungo estesissimi campi agricoli. Un caffè bar moderno con wifi è l’ultimo contatto con il benessere ad appena un chilometro dal confine.
L’arrivo al paso di Ben Hanun costituisce un vero shock per il visitatore. La strada è chiusa da un enorme muro di cemento alto otto metri, circondato da recinzioni metalliche, torrette di sorveglianza e telecamere di sicurezza. Assomiglia all’ingresso di un campo di concentramento, dove decine di soldati pesantemente armati fanno la guardia.
Dobbiamo entrare in un hangar enorme, a piedi, e iniziano gli interrogatori. Un soldato molto gentile e con molto poco lavoro chiede con curiosità: “Cosa venite a fare a Gaza?” e spiega poi che il confine può essere chiuso in qualsiasi momento, a seconda degli eventi. Con il visto entrare è facile, uscire si vedrà.
Dopo aver attraversato due o tre porte metalliche, che si aprono e chiudono rumorosamente, si entra in territorio palestinese. Bisogna camminare per 1 km sotto il tetto metallico, lasciandosi dietro il muro e il filo spinato, fino a un luogo fatiscente dove alcuni soldati palestinesi, vestiti di nero e con un’espressione poco amichevole, iniziano un nuovo interrogatorio.
Lì ci aspetta una macchina con il nostro fixer, Amjad, un palestinese che ha vissuto in Spagna e Tunisia, e si dichiara ammiratore di Arafat, di cui ha la foto sullo schermo del cellullare. Oltrepassata la zona di sicurezza, si raggiunge subito il paese di Abd Rabo Ezbeit completamente distrutto dai bombardamenti del dicembre 2008, dove centinaia di persone vivono di stenti in edifici crollati di cui sono ben visibili il cemento e i ferri. In lontananza si vede la centrale elettrica a carburante, l’unica di Gaza, che funziona solo 12 ore al giorno, per mancanza di carburante.
Il paso di Ben Hanun è circondato da un muro di cemento e da recinzioni elettriche. Sembra un campo di concentramento.
La Striscia di Gaza ha una superficie di 365 chilometri quadrati: 13 km di confine con l’Egitto, a sud, otto chilometri con Israele al nord e altri 47 a est, mentre la costa si estende per 45 chilometri. Da una popolazione di 1,6 milioni di abitanti, quasi un milione sono rifugiati arrivati in questa zona dal 1948 al 2006, quando il muro venne chiuso. Vivono in otto campi, distribuiti nelle cinque province della Striscia: Nord, Gaza, Dar el Balat, Khan Younis (dove si trova il più grande campo profughi) e Rafah.
Dal rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, il 25 giugno 2006, da parte dell’esercito di Hamas, Israele ha intensificato il blocco a un livello disumano, impedendo l’ingresso di carburante, cibo e materiali da costruzione. Da allora ci sono stati oltre 2.000 morti, la maggior parte palestinesi, a causa degli scontri continui tra le due parti. Nessuno sa dove sia tenuto prigioniero questo giovane che adesso avrebbe 25 anni.
In questi quattro anni l’esercito israeliano ha compiuto due operazioni militari di rappresaglia in cerca del soldato rapito. La prima, denominata Summer Rains nel giugno 2006, che è durata cinque mesi e ha causato la morte di 243 civili palestinesi e la seconda, tra dicembre 2008 e gennaio 2009, chiamata Operazione Piombo Fuso, che ha seminato il terrore lungo l’intera Striscia di Gaza con oltre 1.500 palestinesi morti. Poi c’è stato l’incidente della flottiglia della pace, lo scorso giugno, a mettere in evidenza ancora una volta la politica di Israele.
Oltre al conflitto esterno, Gaza sta vivendo una guerra civile tra le due organizzazioni palestinesi: Fatah e Hamas. La prima, molto più moderata, ha vinto le elezioni in tutti i territori palestinesi e controlla l’Autorità Palestinese, tranne nella Striscia di Gaza, dove Hamas ha vinto nel 2006. Da allora Hamas ha istituito un regime radicale islamico, portando avanti la sua guerra contro i coloni ebrei e gli scontri contro i militanti di Fatah. Nel giugno 2007 è scoppiata una guerra tra le due organizzazioni nella Striscia di Gaza, causando 700 morti e la destituzione dei rappresentanti dell’Autorità palestinese.
UNA FAMIGLIA DISTRUTTA
Ghalia Al Sammouny ha 60 anni, è vedova e ha perso 29 membri della sua famiglia nell’Operazione Piombo Fuso. Seduta per terra in una capanna vicino alle rovine di quella che fu la sua casa, ricorda quel 5 Gennaio 2009 con terrore. “Quando sono arrivati i carri armati israeliani, mia figlia stava per partorire”, dice tra le lacrime. “Ha avuto una bambina che è sopravvissuta ai bombardamenti. Ma mio figlio è stato colpito da un proiettile ed è morto in mezzo alla strada. Hanno distrutto un’intera famiglia. Non abbiamo più niente.”
Accanto a lei tre donne più giovani fanno coro. Tutti appartengono al clan e tutte hanno perso qualche membro della famiglia. “Siamo tutte vedove o orfane di guerra”, dice Fathia, che ha perso suo marito e due figli. “Non abbiamo più una famiglia, né soldi, né terra, né speranza … aspettiamo la morte.”
I membri della famiglia Al Sammouny erano agricoltori nella periferia di Gaza, nel quartiere di Al Zatun, a sud della capitale. Una zona di piccole aziende agricole di ortaggi e frutta. Il 5 gennaio 2009, dopo molti giorni di bombardamenti, aerei militari israeliani hanno sorvolato di nuovo a bassa quota la Striscia di Gaza. La gente è uscita dalla propria casa per paura delle bombe che iniziavano a cadere e si è trovata in strada con i carri armati dell’esercito israeliano, che provenienti da ovest hanno iniziato a sparare i loro proiettili. “È stato terribile vedere cadere mio figlio di 21 anni che si dissanguava a terra”, grida Ghalia con le mani a croce, come per chiedere giustizia.
Gli attacchi, oltre a uccidere 29 membri del clan, hanno distrutto le loro quattro abitazioni e i campi. Da allora i superstiti vivono in una baracca che si sono costruiti con materiale di demolizione, in mezzo ad alcuni alberi di fico mezzo secchi. È l’immagine della fatalità. La capanna è costruita con fango, con un tetto di lamiera ondulata mezzo rotta, circa 15 metri quadrati. Sul retro, accatastati, alcuni materassi vecchi e sporchi, coperte, tappeti e qualche indumento. Una lampadina pende dal soffitto. Qui abitano sei persone. Dall’altra parte un’altra capanna di due metri per due, senza soffitto, funge da cucina, con un fornellino dove bolle l’acqua per il tè.
Cinque o sei bambini sotto i sette anni giocano accanto a un filo di ferro arrugginito per stendere la biancheria, ferri contorti di quella che un tempo era una casa, plastiche appese mosse dal vento, un orto con tre o quattro file di cavoli e cumuli di immondizia dove mangiano capre e galline.
“Quando i bombardamenti sono finiti, siamo riusciti a seppellire i nostri morti”, dice Ghalia. “Tutti tranne uno, che gli israeliani si sono portati via e che è morto, ci hanno detto. Da allora siamo morti, viviamo nella miseria con quello che raccogliamo dalla terra e con piccoli lavori saltuari. Abbiamo ricevuto qualche aiuto dalle Nazioni Unite, ma è finito”.
Erano 30 anni che i Sammouny Al vivevano in questa zona, coltivando la terra, ma dopo l’embargo tutto è iniziato ad andare di male in peggio. “Ora siamo finiti”, dice Fathi. “Che cosa dobbiamo fare? Cresciamo i nostri figli come possiamo, ma abbiamo paura che tornino gli aerei. Non sappiamo cosa sarà di noi e dei nostri figli domani o la prossima settimana”.
Ghalia chiede aiuto. In ginocchio, con le braccia aperte e le lacrime che rigano il suo viso, chiede protezione, cibo, riparo… “Non abbiamo più nulla, ma non possiamo arrenderci. Abbiamo fiducia in Dio e dobbiamo portare i nostri figli avanti”.UN PESCATORE DEL CAMPO PROFUGHI DI AL SHATI
Hamada Abu Jamal ha 49 anni e uno sguardo triste, quasi morto. È un pescatore e vive nel campo profughi di Al Shati, nel centro della capitale, istituito nel 1948. Allora c’erano tende di accampamento, ma oggi sono  case in costruzione, fatiscenti e piene di detriti, senza finestre né mobili. Nella Striscia di Gaza vi sono otto campi profughi abitati da un milione di persone che vivono con gli aiuti delle Nazioni Unite.
Vive in una casa a tre piani in rovina, semicostruita cinque anni fa con la moglie, cinque figlie, quattro figli, due nuore e tre nipoti. Sono in 16 a mangiare ogni giorno. Ha iniziato a lavorare come pescatore a 10 anni e ora ha tre imbarcazioni di otto metri, due a Gaza e una a Rafah, vicino al confine con l’Egitto. Prima si guadagnava da vivere in maniera dignitosa, pescando, quando le acque giurisdizionali erano di 12 miglia. Ma nel 2006 gli israeliani hanno ridotto la zona a tre miglia e lì non c’è quasi pesca. “Chi supera le tre miglia,” spiega, “viene arrestato dalla pattuglia israeliana, che affonda le imbarcazioni”.
“Viviamo grazie agli aiuti dell’UNRWA”, ha detto Jamal. “Ogni tre mesi ci danno tre sacchi di farina di 150 chili, 15 chili di zucchero, 15 chili di riso e sette litri di olio vegetale. Sono ancora vivo perché non ci sono abbastanza modi per morire, ma ogni giorno che passa muoio un po’ di più. Il futuro non esiste per noi.”
I bombardamenti del 2008 gli hanno distrutto parte della casa, che è ancora piena di detriti. “Non abbiamo soldi né materiali per ricostruirla”, dice. “La luce funziona solo 12 ore al giorno e quando abbiamo un po’ di soldi per il carburante possiamo accendere il generatore per avere la luce. I miei figli lavorano tre mesi all’anno e quindi non possiamo sostenere la famiglia. Abbiamo solo Dio che ci aiuta. Preghiamo cinque volte al giorno, come dice il Corano, ma abbiamo sempre meno speranza. Abbiamo vissuto molte guerre: quella del 1967, 1986, le conseguenze della guerra del Golfo, le due Intifada… ma il peggio è arrivato con il governo di Hamas e il blocco di Israele”.
I bambini ascoltano ciò che dice, mentre districano delle reti da pesca piene di ami, che passano da un contenitore di legno ad un altro, un lavoro inutile, perché sanno che non le possono utilizzare. Eppure, le mantengono efficienti, qualunque cosa possa accadere.
Camminando verso il porto, Jamal è silenzioso, come smarrito. Parlano solo i suoi occhi, pieni di disperazione. Ci sono decine di barche incagliate in un porto in rovina dai bombardamenti. Quattro pescatori prendono il tè su un tappeto logoro, mentre alcune barche entrano o escono dal porto per cercare di pescare alcune sardine a meno di tre miglia dalla costa.

MALATI DI DISPERAZIONE
Jamal è uno delle centinaia di migliaia di palestinesi che soffrono di disperazione. E’ il principale problema di salute nella Striscia, ha dichiarato il Dr. Moeen, direttore del Centro di Salute Mentale di Jabalia, il più grande a Gaza. Ha 56 anni, un dottorato in Psichiatria presso l’Università di Parigi e ha lavorato in Arabia Saudita, Libia e Iran. Ora cercherà di tirare fuori dal pozzo in cui si trovano i suoi 5.000 malati di mente del quartiere di Jabalia.
“Gli abitanti di Gaza hanno gravi problemi di salute mentale”, spiega il dottor Moeen, “a causa del vivere chiusi dentro un muro enorme, a scapito di attacchi regolari e di una situazione di povertà e sovrappopolazione molto elevata”. Nel quartiere di Jabalia vivono circa 300.000 persone ed è uno dei più colpiti dagli attacchi israeliani. In realtà, il centro medico è circondato da case distrutte dalle bombe che non potranno essere ricostruite finché vigerà il blocco.
“Visitiamo diverse centinaia di pazienti al mese in questo centro di salute pubblica”, aggiunge lo psichiatra. “La maggior parte sono poveri o molto poveri e soffrono di depressione, ansia, shock post-traumatico o di tossicodipendenza. Dei 5.000 pazienti, il 70% per cento sono maschi. Sono dodici anni che lavoro qui e la situazione sta peggiorando. Non riusciamo a far fronte a tutte le richieste di assistenza, né abbiamo sufficienti farmaci antidepressivi. Gli antidepressivi finiscono subito e non ci sono centri di riabilitazione per dipendenza da cannabis e pasticche, che sono sempre più comuni. La maggior parte dei tossicodipendenti assume il “tramadol” un derivato della morfina che riesce ad entrare attraverso i tunnel e viene venduto ovunque”.
Questo centro ha il sostegno e riceve finanziamenti dalla Ong spagnola Medicos del Mundo (MDM). Qui si trova Susanna, una psicologa di 37 anni, il cui compito è quello di migliorare il sistema di organizzazione del Centro di Salute. Susanna conferma il deterioramento delle condizioni mentali degli abitanti della Striscia di Gaza dal 2006. “I più vulnerabili sono i bambini e i giovani”, spiega. “Qui vivono come prigionieri in condizioni estreme, circondati dalla violenza tanto esterna come interna. Religione e famiglia servono da contenitori per sopravvivere ad una situazione estrema.”
Il Dr. Moeen aggiunge che ogni giorno deve “visitare molti bambini, sempre più piccoli che hanno sofferto ogni sorta di trauma da guerra, povertà, stress, mancanza di affetto o semplicemente trauma dovuto al sovraffollamento. La situazione è drammatica e continua a peggiorare”.

VITE SENZA SENSO
Ogni due o tre mesi il medico spagnolo Ricardo Angora, uno dei responsabili del progetto MDM e un esperto della situazione della zona, viaggia a Gaza. È stato testimone del peggioramento della situazione dal 2006. “I palestinesi ormai non danno più senso alla loro vita”, egli spiega. “Prevale una sensazione di incertezza su ciò che accadrà il giorno dopo e questo rende le persone insicure sul loro domani. Ci sono già diverse generazioni perdute, ma i più colpiti sono i bambini, che influenzano pesantemente il morale della popolazione”.
Angora aggiunge che “anche se ora non c’è una situazione di guerra aperta, gli attacchi mirati effettuati da aerei israeliani hanno pesantemente intaccato il morale della popolazione, che vive anche in condizioni di povertà assoluta (80% vive al di sotto della soglia di povertà ); la stragrande maggioranza dipende dall’aiuto delle Nazioni Unite per sopravvivere. I principali problemi sono la mancanza di posti di lavoro, di alloggi, la violenza interna ed esterna e, soprattutto, la sensazione di vivere in prigionia. E’ terribile sapere che non puoi andare via da un luogo dove vivi male”.
I bambini sono ancora una volta dei capri espiatori del conflitto. Tutti i bambini di età inferiore a 10 anni hanno conosciuto solo il blocco, iniziato nel 2000 con la seconda Intifada e rafforzato nel 2006.
Hanna el Gafarani, 38 anni, è proprietaria di una scuola privata materna a Gaza, frequentata da un centinaio di bambini tra i 4 e 5 anni, e conferma il parere dei rappresentanti di Médicos del Mundo. “I bambini non hanno infanzia a Gaza”, spiega Hanna. “Vivono in mezzo alla violenza che a loro volta li rende violenti e cercano lo scontro. Anche se si sono abituati al rumore degli aerei pronti a bombardare, ne soffrono. Il nostro obiettivo è di lavorare con loro e dare un messaggio di speranza e di felicità. Ma la verità è che è molto difficile”.
E’ anche difficile il lavoro di Right to Live, una ONG palestinese che si prende cura di bambini con sindrome di Down, ed è finanziata da diversi Paesi, compresa la Spagna, attraverso l’Agenzia spagnola di Cooperazione Internazionale (AECI). Il centro è situato nel quartiere di Al Shejia, una ex area industriale alla periferia di Gaza, ora popolata da ruderi di edifici industriali distrutti dai bombardamenti di un anno fa.
Mohammed Areer, 37 anni, uno psicologo che lavora nel centro da 12 anni, è vice direttore dell’istituzione nata nel 1992 come piccolo rifugio per i bimbi affetti dalla sindrome di Down. Si tratta dell’unica organizzazione che offre assistenza a questi bambini ed ha una lunga lista di attesa.
“Nel 1996 il governo palestinese ci ha dato 10.000 metri quadrati di terreno e abbiamo incrementato le nostre strutture”, dice Mohammed. “Abbiamo avuto un sostegno significativo da molti Paesi dell’Unione Europea, come la Spagna. Ma da quando Hamas è salito al potere nel 2006 e il blocco è stato rafforzato, gli aiuti arrivano con il contagocce. Con i fondi ricevuti dall’estero possiamo andare avanti sicuramente per i prossimi tre anni, ma adesso non abbiamo altre entrate, pertanto non possiamo fare progetti per il futuro”.
Right to Live offre assistenza a 850 bambini, 650 dei quali hanno la sindrome di Down, 50 soffrono di autismo e i 150 rimanenti non soffrono di alcuna malattia ma collaborano nell’educazione degli altri. I giardini del centro sono come un’oasi di pace in una società stressata e disperata, che vive di aiuti esteri.

UN AIUTO INDISPENSABILE
“Senza l’aiuto delle Nazioni Unite la popolazione di Gaza non riuscirebbe a sopravvivere nemmeno un mese”. Queste le parole pronunciate da Sebastien Trives, 39 anni, massimo responsabile dei piani di emergenza dell’UNRWA. Un francese di Montpellier giunto a Gaza tre anni fa dopo aver trascorso altri tre giorni in Afghanistan. Ha uno sguardo pulito e una voce soave, ma le sue parole rivelano una certa frustrazione. “Tutto sta andando nella direzione sbagliata, la situazione sta peggiorando e non dà segni di migliorare”, spiega. “Per questo motivo il nostro lavoro qui è sempre più importante, quasi indispensabile.”
L’UNRWA svolge due tipi di attività a Gaza: educazione e emergenza. “In materia di istruzione”, dice Sebastien “ci stiamo impegnando per trovare soluzioni per il futuro. Abbiamo 228 scuole nella Striscia di Gaza, frequentate da 200.000 studenti tra i 6 ei 15 anni. Insegniamo loro l’arabo, inglese, matematica e diritti umani. Tutti gli insegnanti sono del posto.”
“Ci piacerebbe aiutare e mettere fine all’occupazione e al blocco di Israele”, dice con un tono un po’ più aggressivo, “ma non dipende da noi, per questo motivo cerchiamo di formare i bambini nei valori universali della non violenza e del rispetto. Non dipendiamo dal governo di Hamas e agiamo liberamente. Di fatto, tutte le nostre scuole sono miste. L’unica cosa che possiamo fare é impegnarci affinché la prossima generazione possa vivere meglio e non sopravvivere, come succede adesso”.
I bambini che usufruiscono della “borsa di studio” delle Nazioni Unite riescono a dimenticare i loro disagi durante la mezza giornata che si trovano a scuola. Nella scuola del quartiere di REMAL, in pieno centro di Gaza, vi sono 1.200 studenti che frequentano ogni giorno in due turni (ore 7-12 e 12-17) assistiti da maestri e professori. Ci sono 38 aule. Gli studenti si mettono in posa per i visitatori e sorridono apertamente al fotografo. Sembrano felici, nonostante tutto. Senza l’aiuto delle Nazioni Unite sarebbero in strada.
La responsabilità principale di Sebastien sono i piani di emergenza delle Nazioni Unite a Gaza. Da lui dipendono direttamente le attività di assistenza sanitaria di base, le infrastrutture e gli aiuti ai rifugiati, con un budget annuale di 250 milioni di dollari. “Da noi dipendono circa un milione di profughi che aiutiamo a sopravvivere”, egli spiega. “Gaza è un super carcere dove vivono i palestinesi senza lavoro né speranza. Il 60% dei giovani sono disoccupati e vivono in un contesto di estrema violenza. Inoltre, si stima che 300.000 persone vivano qui in una situazione di estrema povertà”.
Ogni tre mesi l’UNRWA distribuisce i propri alimenti in undici centri distribuiti in tutta la Striscia di Gaza: farina, riso, zucchero, olio e, quando c’è, un po’ di carne.
“Nelle infrastrutture non possiamo lavorare bene”, si lamenta Sebastien Trives. “Dopo i bombardamenti di gennaio 2009 non siamo riusciti a ricostruire nemmeno una casa, perché non abbiamo materiale da costruzione. Ora stiamo costruendo case di fango come soluzione temporanea. Il blocco impedisce di introdurre qualunque cosa a Gaza. L’unica via di ingresso sono i tunnel del Sud “.
EL PAIS