LE ARMI DELLA MORTE E L’IRA DI DIO!

dalcieloallaterra

Ho scritto il 22 settembre 2009.A tutti i lettori.
Agli amici e fratelli spirituali.
Il Messaggio che leggerete con allegati due articoli della stampa nazionale è drammatico e inquietante. Mi rendo conto e so benissimo che non siete stati educati dalle Religioni alla conoscenza di un Dio Giustiziere e castigatore. Ma la verità è questa. Dio non è solo Amore, ma anche Suprema Giustizia. La Bibbia è costellata di interventi Purificatori che Il Padre scatena sulla terra per somma Giustizia. Il diluvio universale, Sodoma e Gomorra, ecc .ecc. Lo stesso Cristo nel capitolo 24 di Matteo annuncia a tutto il mondo la Sua venuta con severa giustizia. Anche per i laici non credenti, ma che praticano l’amore e la giustizia, non deve essere difficile comprendere che la Natura è ai limiti della sopportazione e crea degli effetti dirompenti contro l’uomo che continua a violentare la sua cosmica natura. Per tanto il MESSAGGIO che leggerete è giusto, è logico e dovrebbe suscitare in tutti noi umiltà, pentimento e soprattutto voglia di fare per essere tra quelli che un giorno potranno degnamente ricostruire un mondo nuovo rinato dalle macerie del vecchio.

Vi abbraccio con Amore

vostro Giorgio Bongiovanni

I FRATELLI ASTRALI DELLA LUCE SOLARE COMUNICANO:LE ARMI DELLA MORTE E L’IRA DI DIO!

SIETE SULL’ORLO DELL’AUTODISTRUZIONE. LA VOSTRA CADUTA È IRREVERSIBILE.
AVETE PERDUTO I VALORI BASILARI CHE RENDONO LIBERO E UNICO LO SPIRITO INDIVIDUALE.
PECCATO!
PAGHERETE CARI I VOSTRI ERRORI E SOPRATTUTTO LA PERSEVERANZA DI QUESTI: L’ODIO, LA VIOLENZA, LA SETE DI POTERE, IL CINISMO E LA MOSTRUOSITÀ DEI VOSTRI SENTIMENTI NEI CONFRONTI DEI VOSTRI FIGLI CHE ODIATE E TORTURATE  SENZA TIMORE DI ESSERE CASTIGATI DA DIO.
SOLO COSÌ, CON QUESTA LOGICA E CERTA INTERPRETAZIONE POSSIAMO SPIEGARE IL PERCHÈ E QUINDI QUALI SONO LE CAUSE ASSURDE E DIABOLICHE CHE SPINGONO I VOSTRI POTENTI DELLA POLITICA, DELLE RELIGIONI, DELL’ECONOMIA E DELLE FORZE MILITARI A PORRE IN ESSERE O A PERMETTERE IL COMMERCIO DELLE ARMI, ANCHE NUCLEARI, E LA DISTRUZIONE DELL’HABITAT IN CUI VIVETE A CAUSA DELLE MIGLIAIA E MIGLIAIA DI SCORIE RADIOATTIVE SPARSE IN TUTTI I MARI E IN MOLTE COLLINE DEL VOSTRO MONDO.
VOI AVETE PERSO IL DIRITTO DI ESSERE CHIAMATI UOMINI!
VOI  AVETE PERSO IL DIRITTO DI POSSEDERE IL LIBERO ARBITRIO!
VOI AVETE PERSO IL DIRITTO DI ESISTERE E MANIFESTARE LE QUALITÀ TIPICHE DELL’HOMO SAPIENS! PER TALE RAGIONE STIAMO PREPARANDO DEI NUOVI NOÈ, DELLE NUOVE ARCHE CHE NON CONOSCERANNO LE ACQUE E QUANDO TUTTO SARÀ PRONTO IL NOSTRO E VOSTRO MONARCA UNIVERSALE ADONAY ARAT RA SCATENERÀ UN NUOVO DILUVIO DI FUOCO AFFINCHÈ IL PIANETA SIA PURIFICATO E LA MAGGIOR PARTE DI VOI STERMINATI E ANNIENTATI (Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e li sterminò tutti. Matteo 24, 37-40).
MA QUEI GIORNI PROSSIMI A MANIFESTARSI NON DETERMINERANNO LA FINE DEL MONDO, ANZI SARÀ IL PRELUDIO ALLA GRANDE, POTENTE E GLORIOSA MANIFESTAZIONE SULLA TERRA DEL FIGLIO DI DIO GESÙ- CRISTO. È QUELLO IL GIORNO DELLA VERITÀ, PERCHÉ ALLORA E SOLO ALLORA SARANNO GIUDICATI I VOSTRI SPIRITI E SI DECIDERÀ LA VOSTRA SORTE: LA SALVEZZA O LA MORTE SECONDA. PER MOLTI, MOLTISSIMI SARÀ LA CONDANNA. PER POCHI, POCHISSIMI LA CERTEZZA DI FAR PARTE DEL REGNO DI DIO PROMESSO DA TUTTA LA LEGGE E I PROFETI. IL PARADISO CHE CRISTO STABILIRÀ SULLA TERRA INSIEME AI GIUSTI, AI BEATI E AGLI AMANTI DELLA VITA.
PACE!
DAL CIELO ALLA TERRA
I FRATELLI ASTRALI DELLA LUCE SOLARE SALUTANO
Sant’Elpidio a Mare (Italia)
22 settembre 2009. Ore 12:31
G. B.

0609

IL BEL PAESE DELLE ARMI
di Monica Centofante
C’è un business che non conosce crisi e che in controtendenza con l’andamento generale del mercato è sempre in rapida espansione: è quello delle armi, un comparto in continua crescita con miliardi di dollari di fatturato. E una delle principali fonti di guadagno per il nostro Paese, che dal 1945 in poi si è sempre posizionato tra i primi dieci produttori di armamenti al mondo. A fare la nostra “fortuna”, in particolare, i Paesi del Terzo Mondo, dove da oltre trent’anni esportiamo ogni sorta di arma e di armamento, rendendoci complici di sanguinari conflitti e di violazioni dei diritti umani.
Dal secondo dopoguerra ad oggi, pizza a parte, c’è un solo made in Italy che tra alti e bassi non tramonta mai. E che in tempi di crisi, con un evidente effetto trainante sull’economia, registra un saldo attivo commerciale in netto contrasto con il deficit del Paese.
E’ il mercato delle armi, un comparto aziendale con decine di migliaia di addetti e miliardi di Euro di fatturato. Il fiore all’occhiello dell’economia italiana e uno dei principali responsabili della morte e della distruzione di milioni di vite umane.
Il rapporto annuale del Presidente del Consiglio dei Ministri – (come di consueto) pubblicato a fine marzo di quest’anno e riferito alle attività del 2008 – è coerente con i trend di crescita del settore. Che l’anno scorso ha ottenuto 1880 autorizzazioni all’esportazione per oltre 3 miliardi di Euro: il 28,58% in più rispetto al 2007, con consegne realmente effettuate per 1 miliardo e 800 milioni, autorizzazioni relative a programmi intergovernativi per 2 miliardi e 700 milioni e un volume d’affari di oltre 7 miliardi e 500 milioni di Euro.
Dati che da soli valgono a dimostrare il consolidamento e l’incremento nel “mercato globale” dell’industria bellica italiana, che si conferma come “un competitivo integratore di sistemi, capace di affermarsi in mercati tecnologicamente all’avanguardia”.
Lo rivendica con orgoglio il documento, una trentina di pagine in tutto più una ventina di tabelle, che presentano una serie di numeri dei quali però c’è ben poco da andare fieri. Più del 30% delle nostre esportazioni, si apprende, raggiunge i Paesi del sud del mondo e il 35,86% la Turchia, che ha immesso nella nostra economia oltre 1 miliardo di Euro grazie a commesse che comprendono non meglio identificati “elicotteri”.
Il termine è generico, ma le dichiarazioni pubblicate nel settembre del 2007 sul sito ufficiale del ministero della difesa turco lasciano spazio a pochi dubbi: “Nel quadro del programma Atak (Tactical Reconnaissance and Attack Helicoper ndr.) – si legge – lo scorso 7 settembre è stato raggiunto l’accordo con Agusta Westland: seguirà presto una cerimonia ufficiale”. L’accordo prevedeva la commessa di 1,2 miliardi di euro per 51 elicotteri A129 da combattimento destinati al Comando turco delle forze di terra e all’avvio delle trattative il Presidente e Amministratore Delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini, si mostrava più che soddisfatto. “La scelta degli elicotteri Agusta Westland da parte della Turchia – aveva detto – conferma l’elevata competitività dei nostri prodotti e le ottime relazioni industriali” che esistono tra i due Paesi. In Turchia, tra l’altro, “Finmeccanica è presente da molti anni in diversi settori. Questa scelta rinnova i rapporti di stima e amicizia reciproci e apre la strada a nuove interessanti opportunità di collaborazione tra i due Paesi”. Agusta Westland è infatti una controllata di Finmeccanica, di cui il principale azionista è il Governo, e “forse per il semplice fatto che la Turchia sia un partner Nato e che si trattava di elicotteri ha fatto ‘sorvolare’ su qualche denuncia ribadita dalle associazioni per la difesa dei diritti umani”.
Il commento è di Giorgio Beretta, della Rete Italiana per il Disarmo, che ricorda inoltre come la stessa azienda abbia inaugurato lo scorso anno ad Ankara i suoi nuovi “Regional Business Headquarters”. D’altronde, come si dice, “business is business” e così, mentre a parole, strette di mano e visite ufficiali l’Italia si eleva a paladina dei diritti dei più deboli contro l’asse del male, dall’altra non esita a fornire ai Paesi che i diritti umani li violano costantemente i mezzi per poter proseguire a perpetrare ogni sorta di violenza.
Nell’ultimo rapporto di Amnesty International, la Turchia figura come il Paese in cui “il sentimento e la violenza nazionalisti sono aumentati sull’onda di un’accresciuta incertezza politica e degli interventi armati. La libertà di espressione ha continuato a essere limitata”, non si sono fermate le “denunce di tortura e altri maltrattamenti” ed eccessivo è l’”impiego della forza da parte delle forze dell’ordine”. “Le incriminazioni per violazioni dei diritti umani – ancora – sono state inefficaci e insufficienti”, anche nei confronti “di rifugiati e richiedenti asilo”. E “non sono cessate le preoccupazioni per la mancanza di equità processuale”.Nessuna meraviglia.
Non è l’unica nazione interessata da violazioni dei diritti umani, né da conflitti o tensioni a cui l’Italia vende materiali d’armamento. E a cui, nel corso della storia, li ha venduti.
Basti pensare che nella rosa dei migliori clienti non mancano neppure stati canaglia come la Siria, che da noi ha comprato sistemi di puntamento per 2,8 milioni di Euro e fino al 2007 anche l’Iraq. Nel pieno della “guerra preventiva” contro l’Occidente del mondo.
Contemporaneamente, è ovvio, gli affari si fanno anche con gli Stati avversari, quelli della “lotta al terrorismo”, che sono nostri alleati. E con operazioni come quella chiusa alla fine del 2008 quando Alenia North America, controllata di Finmeccanica, ha siglato un contratto del valore di 287 milioni di dollari con l’Usaf per la fornitura di 18 velivoli da trasporto tattico G.222. Velivoli che saranno girati alle forze armate afgane (Afghanistan National Army Air Corps) dal Combined Air Power Transition Force dell’Usaf di Kabul. “Siamo orgogliosi – ha dichiarato per l’occasione Giuseppe Giordo, presidente ed amministratore delegato di Alenia – di supportare ancora una volta le Forze Armate Usa nella lotta globale al terrorismo, con la fornitura di un velivolo robusto – che ha dimostrato nel corso della sua carriera delle eccellenti capacità – per il suo utilizzo in Afghanistan da parte dell’Anaac”.
Come dire: un colpo al cerchio e uno alla botte. Lucrosissimi tutti e due.
E se questi sono i principali dati riguardanti la vendita di armamenti da guerra non sono da sottovalutare altri dati: quelli riferiti alle cosiddette “armi leggere” di fabbricazione nostrana – utilizzate per lo più nei conflitti a “bassa intensità” dei Paesi in via di sviluppo – delle quali è pieno il mondo. Con risultati, in termini di diritti umani, a dir poco disastrosi.
E il principio costituzionale secondo il quale “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”?
Carta straccia. Aggirato da una serie di stratagemmi volti ad eludere le norme in materia di vendita di armi (peraltro relativamente recenti), da accordi internazionali, da operazioni non proprio limpide, che hanno caratterizzato tutta la storia dell’industria armiera italiana e, in modo particolare, gli ultimi quarant’anni.
Nel corso dei quali il modo di “concepire la guerra” si è lentamente trasformato: non più d’assalto, ma, dicevamo, a “bassa intensità”, recentemente definita “chirurgica”, “elettronica” o più ipocritamente “in funzione della pace, della democrazia, della libertà”.
La metamorfosi, concepita negli anni Novanta protagonisti del secondo conflitto del Golfo e della guerra in Jugoslavia, avviene l’11 settembre del 2001. E porta con sé – oltre a una serie di problematiche politico-sociali che in questa sede non tratteremo – un consistente incremento nella produzione di armi ed armamenti. Che va a sovrapporsi a quel “dividendo della pace”, seguito al crollo dell’Unione Sovietica, il quale ha avuto vita relativamente breve e che dopo una iniziale riduzione della spesa militare nei principali Paesi occidentali ha presto ceduto il passo a una nuova corsa agli armamenti. D’altronde, come giustamente annotano Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini in Armi d’Italia, “le guerre hanno bisogno di armamenti almeno quanto gli armamenti hanno bisogno di guerre”.
E in quest’ottica, i dati raccolti da Vincenzo Comito (Le armi come impresa) e riportati nei rapporti annuali del Sipri, l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, parlano chiaro: se già dagli ultimi anni Novanta le prime cento imprese del settore a livello mondiale erano in crescita, nel 2005 la spesa per gli armamenti ha raggiunto la cifra di 1.001 miliardi di dollari, nel 2006 ha toccato i 1.204 e nel 2007 i 1.339. Cifre che corrispondono grosso modo al 2,5% del pil mondiale nei due anni e a 173 dollari per ogni abitante della terra nel 2005, a 184 dollari nel 2006, a 202 nel 2007”. Oltre ad un incremento nel 2007, rispetto al 1998, del 45%.
Anche il 2008, rispettando i ritmi di crescita a dispetto della crisi finanziaria internazionale, ha visto un incremento della spesa militare mondiale pari al 4%, ossia 1.464 miliardi di dollari. 40,6 dei quali sono stati spesi dal nostro Paese, che quest’anno si posiziona all’ottavo posto per spese militari con un aumento del budget militare nazionale pari all’1,8%.
L’Italia, si legge nel Sipri Yearbook 2009, ricopre il 2,8% della spesa militare mondiale che vede gli Stati Uniti al primo posto seguiti dalla Cina (per la prima volta dal secondo dopoguerra), da Francia, Gran Bretagna, Russia, Germania, Giappone, Italia – appunto -, Arabia Saudita e India.
E fatta eccezione per l’Europa occidentale e centrale, dal 1999 tutte le regioni del mondo hanno registrato “significativi incrementi” della spesa militare anche perché, annota il Sipri, “durante gli otto anni della presidenza di George W. Bush la spesa militare è aumentata a livelli che non si registravano dalla Seconda Guerra Mondiale”.
All’origine della tendenza alla crescita vi è dunque la spesa Usa. Dovuta non solo alla guerra in Iraq e in Afghanistan, ma come annota ancora Comito ad “una chiara visione ideologica dell’amministrazione Bush volta al mantenimento, anzi all’accrescimento, del dominio militare del paese nel mondo”. Mirato, non va sottovalutato, anche e soprattutto ad assicurarsi il controllo di zone strategiche del pianeta in vista del progressivo esaurimento delle risorse naturali ed energetiche.
Anche l’Italia – che grazie all’amicizia e all’alleanza strategica con gli Stati Uniti ha incassato lauti guadagni con la guerra all’Iraq – non si discosta da questa intenzione, tanto che nella relazione di esercizio del 2007 dell’Aiad (Associazione Industrie per l’Aerospazio, i sistemi e la Difesa) si parla dell’esigenza di una maggiore sicurezza dopo l’11 settembre, considerato “il punto di partenza per l’avvio accelerato del processo di sviluppo di nuovi mezzi tecnologici necessari per la sicurezza della collettività”. In termini di “controllo delle frontiere”, “sicurezza del sistema dei trasporti”, “protezione delle infrastrutture critiche”, “sicurezza energetica e degli approvvigionamenti”.
Per fare questo, come abbiamo già accennato e come vedremo, occorre superare una serie di “ostacoli”: dalle leggi che frenano l’industria armiera agli scontri con le associazioni pacifiste e con la società civile organizzata. Che hanno difeso strenuamente, finora con non poco successo, la legge 185/90 dagli attacchi di una politica bipartisan e senza scrupoli che intendeva cancellare con un colpo di spugna anni di lotte per ottenere più trasparenza e più etica nella produzione e nella vendita di armi e armamenti. In un’Italia pronta a sacrificare la spesa sociale, la ricerca e la cooperazione allo sviluppo, ma non certamente l’industria bellica controllata, in modo più o meno diretto, dallo stesso governo. Per questo, sottolineano ancora Bagnato e Verrini, “non è stata affatto una battuta quella del premier Silvio Berlusconi che, nell’ottobre del 2004 – non diversamente da altri prima di lui – ha promesso ai vertici di Finmeccanica di trasformarsi nel loro ‘commesso viaggiatore’ per far aumentare le commesse dei nostri aerei e sistemi di difesa. La sua è stata una dichiarazione che fotografa una realtà e avalla una tradizione storica”.
La stessa che tenteremo di ripercorrere nelle pagine che seguono, prendendo spunto dall’ultimo rapporto del Presidente del Consiglio dei Ministri “sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento” e ripercorrendo i tratti salienti della complessa storia dell’industria armiera italiana, dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri.
Nel farlo abbiamo attinto a diverse fonti, in particolare al prezioso e già citato testo di Benedetta Verrini e Riccardo Bagnato Armi d’Italia, nonché ad articoli, rapporti ufficiali, comunicati di associazioni pacifiste che da anni tentano di fare chiarezza su un tema controverso, per oltre quarant’anni coperto dal “segreto di Stato”.
L’intento è quello di contribuire a prendere coscienza del ruolo svolto dall’Italia nell’insicurezza mondiale, partendo da un concetto di base: che sin dal 1945 il nostro Paese si è sempre posizionato tra i primi dieci produttori di armamenti nel mondo e ha esportato senza controllo non solo armi da guerra che hanno alimentato ogni sorta di conflitto, ma anche pistole, cluster bombs, mine che (sebbene queste ultime siano state messe al bando) uccidono lentamente milioni di innocenti. Giorno dopo giorno e non soltanto quando scoppia un conflitto degno delle prime pagine.

Più armi meno sicurezza
“Il 2008 ha visto un incremento delle minacce alla sicurezza, alla stabilità e alla pace in quasi ogni parte del globo”. E “gli effetti della crisi finanziaria globale tenderanno a esacerbare queste sfide mentre i governi e le organizzazioni non-governative faticheranno a rispondervi efficacemente”.
Non sono rassicuranti i dati inseriti nell’ultimo rapporto dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, che contrappone ad una spesa militare in crescita come mai dalla fine della Guerra Fredda una situazione di profonda insicurezza sul piano internazionale. Dovuta anche alla minaccia rappresentata dalle 23.300 armi nucleari in possesso di otto Paesi.
Nell’ultimo periodo l’incremento delle spese militari mondiali ammonta al 4%, ossia a 1.464 miliardi di dollari a fronte dei 1.000 miliardi toccati dieci anni fa. Mentre aumentano anche le consegne dei maggiori sistemi di armamenti internazionali, che raggiungono quota 51,1 miliardi di dollari, cifra, avverte il Sipri “al ribasso” poiché non comprende le esportazioni di importanti Paesi come la Cina, che non rende noti i propri numeri.
La crisi economica non influenza quindi il mercato delle armi, “sollevato” dai 16 maggiori conflitti in corso nel mondo e da una serie di altre guerre e guerriglie, che contribuiscono ad alzare la bilancia commerciale.
Nel contesto internazionale, come già accennato, l’Italia si posiziona ai primi posti, sia per la vendita che per l’acquisito di armamenti e nella scelta dei propri acquirenti non sembra porsi particolari limiti.
Nell’ultimo rapporto del Presidente del Consiglio si legge che oltre alla vendita di elicotteri alla Turchia, il nostro Paese ha esportato “aeromobili da pattugliamento marittimo” in Nigeria, “elicotteri di trasporto tattico verso l’Australia e la Nuova Zelanda” e “una nave logistica verso l’India”. Dove è tuttora in corso la guerra per la contesa del Kashmir con il Pakistan e dove nel conflitto a bassa intensità tra i maoisti e il governo e le milizie, “entrambe le parti – spiega Amnesty International – si sono rese responsabili di abusi come la presa di mira di civili. Esplosioni di ordigni in varie parti del Paese hanno ucciso centinaia di persone. In risposta, il governo ha arbitrariamente detenuto e torturato sospetti”. Non solo. Mentre l’India continua a crescere economicamente – tanto da potersi permettere un acquisto di armi pari a circa 173 milioni di euro – 300 milioni di persone, un quarto della sua popolazione, vive nella povertà. E “le autorità indiane non sono riuscite ad assicurare i diritti di comunità già emarginate come i contadini senza terra e gli adivasi, i quali si oppongono allo sfruttamento della loro terra e di altre risorse per progetti industriali.”
L’India è al terzo posto, dopo il Regno Unito, nella graduatoria dei Paesi destinatari dell’export italiano di armi e a Bangalore, lo scorso 12 febbraio, i presidenti di Agusta Westland e di Tata Sons, rispettivamente Giorgio Orsi e Ratan Tata, hanno firmato un Memorandum of Understanding che prevede la formazione di una joint-venture tra le due aziende per la produzione di elicotteri. Sia ad impiego civile che militare (per questi ultimi si parla di 500 velivoli). Dove Agusta sarà responsabile delle attività di marketing e vendita in India e Paesi limitrofi e Tata si occuperà della produzione. Rigorosamente, neanche a dirlo, a basso costo.
Un commercio senza scrupoli, che peserà sulla pelle di centinaia di lavoratori prima di riversare il suo peso mortale sui campi di battaglia.
La stessa cosa, o qualcosa di molto simile, accadrà negli altri Paesi non appartenenti alla Nato e all’Unione Europea che acquistano armi made in Italy. E che sono interessati da conflitti e tensioni quando non denunciati dalle organizzazioni internazionali per violazioni di diritti umani.
Tra questi spiccano l’”amica” Libia (93,22 milioni di Euro) e l’Algeria (77,57). Alle quali vanno aggiunte Nigeria, Brasile, Emirati Arabi Uniti, Venezuela, Kuwait, Pakistan (rivale dell’India), Arabia Saudita, Egitto, Malaysia, Indonesia, Cile, Israele.
Anche la Cina delle 1860 condanne a morte, delle quali 470 eseguite, compra italiano: nello specifico apparecchiature elettroniche per 147.000 Euro. Oppure il Kenia delle violenze elettorali tra Pnu e Odm e il Messico dei 2500 morti all’anno delle organizzazioni criminali.

“A febbraio 2008 – si legge su La Stampa del 14 aprile scorso – una fiammata investe i Balcani. Il premier Hashim Thaci proclama l’indipendenza del Kosovo. Il capo di Stato serbo Boris Tadic dichiara: ‘La Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo’. Quell’anno l’Italia vende al neonato Stato balcanico agenti tossici, chimici o biologici, gas lacrimogeni e materiali radioattivi. Alla Serbia apparecchiature elettroniche per quasi 7 milioni di Euro”.
Di queste notizie, decisamente poco edificanti, è piena la storia d’Italia.
Sin dagli anni Settanta e Ottanta la fortuna dell’industria bellica e delle armi leggere si è infatti basata sulla vendita di armi a Paesi del Terzo Mondo, in spregio a qualsiasi forma di etica, di morale o più semplicemente di umanità.
Sulla pelle dei più deboli, la culla della cristianità ha ricompattato la propria economia, ha stretto alleanze politiche, ha giocato un ruolo da protagonista nello scacchiere internazionale. Macchiandosi, possiamo dirlo senza timore di smentita, di veri e propri crimini contro l’intero genere umano.

Brevi cenni storici. Dal primo dopoguerra…
La nascita della moderna storia dell’industria armiera italiana è da far risalire al 1933, anno in cui per iniziativa dell’allora presidente del Consiglio Benito Mussolini venne istituito l’Iri, acronimo di Istituto per la Ricostruzione Industriale. Un ente temporaneo nato per scongiurare il fallimento delle principali banche italiane – che da oltre un trentennio finanziavano e compartecipavano ai rischi e ai guadagni industriali – e quindi il crollo dell’economia provata dalla crisi del 1929 e da una difficile riconversione dell’industria bellica.
Per mezzo dell’Iri lo Stato coprì all’epoca le perdite delle tre maggiori banche – Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma e Credito Italiano – e acquisì il controllo dei relativi titoli e proprietà industriali. Divenendo di fatto controllore del credito e gestore della grande economia privata come vero e proprio amministratore di una holding pubblica e non soltanto, come era stato fino ad allora, per mezzo del potere legislativo.
Nel 1937, con due sezioni – quella bancaria e quella industriale – l’Iri fu trasformato in ente permanente. “Il comparto siderurgico e bellico venne perciò coinvolto nel piano autarchico del regime fascista, che puntava a far sì che si producesse in patria tutto quanto era necessario per la sopravvivenza del popolo e la difesa dello Stato” (Armi d’Italia)
Ma negli anni successivi, a causa del conflitto fra siderurgia privata e siderurgia statale, l’industria bellica subì duri colpi e nel 1945 uscì distrutta dalla seconda guerra mondiale. Tanto più che la pressoché totale smilitarizzazione e la forte limitazione al riarmo imposte dai vincoli del Trattato di Pace del 1947 avvilì qualunque ipotesi di rinascita.
Per sopperire alle esigenze di quel comparto industriale venne quindi istituito, nello stesso anno, il Fondo “Finanziamento Industria Meccanica” (la futura Efim), nato con lo scopo di finanziare la riconversione delle industrie aeronautiche prima impegnate nelle produzioni belliche. Tra queste la Fiat e la Olivetti, che restituirono i prestiti ricevuti, e la Breda, che non riuscì invece a ripagare i debiti. Diventando così il nucleo attorno al quale nel 1962 sarebbe stata creata l’Efim, ”Ente autonomo di gestione per le partecipazioni del fondo di finanziamento dell’Industria Meccanica”, una nuova holding delle Partecipazioni statali che per statuto avrebbe dovuto gestire, appunto, le partecipazioni in precedenza detenute dal Fim. E che per le caratteristiche che avrebbe via via assunto, nel 1969 sarebbe diventato l’“Ente Partecipazioni ed Finanziamento Industria Manifatturiera”. Rilevando, in questa veste, aziende private come il gruppo elicotteristico Agusta (1973) che insieme alla Oto Melara e alla Breda avrebbe fatto dell’Efim il secondo polo nazionale dell’industria della difesa. Per anni concorrente dell’Iri (Aeritalia e Selenia).

Ma torniamo per un attimo al secondo dopoguerra.
Quasi in concomitanza con la nascita del Fim, nel 1948 venne istituita in ambito Iri la Finmeccanica, con il compito di coordinare l’azione delle industrie meccaniche e cantieristiche a partecipazione statale acquisite nei primi 15 anni di vita dell’Iri.
Nel corso degli anni successivi i vincoli del Trattato vennero gradualmente ad attenuarsi e la lenta risalita dell’industria italiana iniziò dopo il 1949 e quindi dopo l’ingresso nella Nato. Una ripresa, scrivono Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini in Armi d’Italia, che “ripropose ben presto il problema di una ricostruzione industriale armiera, questa volta in difesa del Patto Atlantico”. Così, “grazie all’European Recovery Program (Erp), programma avviato dagli Usa nell’ambito del piano Marshall, tra il 1948 e il 1952 l’Italia usufruì di aiuti per 1.470 milioni di dollari”. E l’azione di sostegno economico e militare di Washington all’Italia proseguì tanto “che nel periodo 1956-65 raggiunse l’8,8 per cento delle spese totali per la difesa italiana, per ridursi negli anni successivi e progressivamente annullarsi solo all’inizio degli anni Settanta”.
In seguito a questa ripresa ripartirono le esportazioni sia per l’aeronautica che per l’industria navale. Mentre nel decennio successivo, dopo l’uscita della Francia dalla partecipazione alle strutture militari del Patto Atlantico, si rafforzò il legame fra aziende nostrane e politica Nato e sempre più importante fu “la capacità delle imprese italiane d’inserirsi nei mercati internazionali di concerto con le aziende americane, laddove Washington stessa, per motivi politici, esitava a vendere”.

Il grande boom arrivò però negli anni Settanta e Ottanta.
Alle soglie di questi due proficui decenni l’industria armiera italiana, a concentrazione prevalentemente tripolare (Iri, Efim e Fiat), possedeva già un buon livello tecnologico anche se a fare la differenza fu l’apertura ad un mercato fino ad allora non battuto e che non sarebbe più riuscita ad abbandonare: quello del Terzo Mondo.

…ai dorati anni Settanta e Ottanta.
Modernizzazione degli arsenali e apertura a nuovi orizzonti sono dunque le principali caratteristiche del mercato armiero italiano degli anni Settanta. A metà dei quali si delinea, sul fronte interno, uno dei principali capisaldi sui quali si consoliderà la nostra industria bellica.
Tra il 1975 e il 1977 vengono infatti varate le cosiddette “leggi promozionali”, che danno il via ad un processo di ristrutturazione delle forze armate italiane e che, allo stesso tempo, sostengono l’industria militare nazionale attraverso il finanziamento pubblico, ne consentono l’allargamento e di conseguenza l’accrescimento delle capacità di penetrazione sui mercati internazionali (De Andreis – Liberati 1987) con prezzi assolutamente competitivi. E con un rischio d’impresa trasferito sullo Stato (Il commercio delle Armi).
Con queste norme, per la prima volta, vengono attribuiti fondi a bilanci annuali sulla base di una programmazione pluriennale, che però non verrà rispettata.

Le tre leggi – per la Marina (n. 57 del 1975), per l’Aeronautica (n. 38 del 1977), per l’Esercito (n. 372 del 1977) – stanziano infatti, in totale, 3.150 miliardi di lire da utilizzare su un arco temporale di dieci anni, una cifra che verrà superata oltre ogni aspettativa.
In quello stesso periodo, e nei successivi anni Ottanta, l’Italia fa quindi il suo ingresso nella lista dei maggiori esportatori mondiali di armi. Mercato nel quale si inseriscono, come ricostruiscono, ancora, Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini, aziende come Lancia, Borletti, Teletta (gruppi Fiat), Oto Melara, Galileo, Breda, Agusta, Siai Marchetti (Gruppo Efim), Aeritalia, Selenia ed Elsag (Gruppi Iri).
Tra il 1977 e il 1978, spiegano invece nel 2004 Chiara Bonaiuti e Achille Lodovisi dell’Os.C.Ar. (Osservatorio sul Commercio delle Armi), le esportazioni italiane passano da 380 milioni a 775 milioni di dollari per poi raddoppiare nel 1981 raggiungendo quota 1 miliardo e 400 milioni: il 3,2% del mercato mondiale. “In quegli anni – dicono – l’Italia si colloca al sesto posto nella graduatoria mondiale degli esportatori dopo Urss, Usa, Francia, Gran Bretagna e Repubblica Federale Tedesca”. Per poi diventare nel quinquennio 1979-83 “il quarto esportatore mondiale di grandi sistemi d’arma al Terzo Mondo”, dove è diretto il 94,6% del totale delle vendite italiane.
A favorire il Bel Paese, oltre all’intervento pubblico nell’industria militare e al nuovo mercato dei Paesi in via di sviluppo – in particolare da quando si registra il contemporaneo stallo delle esportazioni da parte di Stati Uniti e Unione Sovietica – una normativa più che favorevole.

Dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta le operazioni di compravendita non sono infatti soggette a rendiconti pubblici. Informazioni ufficiali sul loro commercio sono praticamente inesistenti, fatta eccezione per “una prima serie di dati aggregati forniti dai governi a partire dal 1984 nelle relazioni semestrali sulla politica informativa e della sicurezza” (Il commercio di Armi). Mentre le informazioni ufficiose, reperibili su riviste italiane o straniere di settore o nei rapporti di istituti esteri di ricerca, evidenziano che il materiale bellico è considerato alla stregua di qualsiasi altra tipologia di merce. Non è così – almeno ufficialmente – in altri Paesi occidentali, come la Francia, la Germania o gli Stati Uniti che avevano regolato la vendita di armi già tra il 1939 e il 1968, diversamente da noi dove tale mercato era concepito come una questione puramente commerciale. Tanto che la stessa competenza politica non era neppure attribuita al ministero della Difesa, come a rigor di logica sarebbe dovuto essere bensì al ministro per il Commercio Estero, incaricato di rilasciare le licenze (Armi d’Italia). Mentre non sussisteva “alcuna distinzione tra armi comuni da sparo e armi da guerra: pistole e fucili erano insomma considerati al pari di elicotteri e cannoni”. In quanto alle stesse modalità di rilascio delle licenze esse costituiscono “un tratto peculiare che caratterizza il commercio di armi in quegli anni: la discrezionalità politica del governo, che si avvantaggiava delle poche leggi esistenti, era coperta da un alone di impenetrabile segretezza. Ricevuta la richiesta di esportazione da un produttore, il ministero del Commercio Estero effettuava una sommaria valutazione circa l’utilità (e la compatibilità) della vendita in rapporto agli obiettivi politici ed economici nazionali. Nella sua decisione, esso doveva avvalersi della competenza di uno speciale e non meglio definito ‘Comitato per le questioni attinenti all’esportazione di taluni materiali e prodotti specifici’, coperto da segreto di Stato. Tutto l’iter del rilascio delle licenze di esportazione di ‘materiali strategici’ come le armi era inoltre sottoposto al principio di non pubblicità sulla base di un regio decreto risalente all’epoca della seconda guerra mondiale. Era inevitabile che nei meandri di questa segretezza e fra le numerose lacune legislative trovassero fertile terreno di coltura affari con clienti non proprio raccomandabili” (Armi d’Italia)

E infatti i principali acquirenti di materiale bellico made in Italy sono in quegli anni, segnati dalla prima guerra del Golfo, Paesi come l’Iraq, l’Iran, la Libia, l’Egitto e la Nigeria. E più in generale, contro qualsiasi forma di rispetto dei diritti umani, oltre un terzo delle esportazioni italiane di armi è diretta a Paesi interessati da conflitti, molti dei quali forniscono in cambio prezioso petrolio greggio.
Lo denunciano le associazioni pacifiste, come quelle che all’epoca presidiano il porto di Talamone, in Toscana, da cui partono i carichi di morte, nel 1982 diretti anche nell’Argentina dilaniata dal conflitto Falkland-Malvinas. Esportazioni che quando non ottengono le necessarie autorizzazioni vengono effettuate comunque, per mezzo di triangolazione: spedizione con una destinazione finale fittizia o forniture di componenti verso una destinazione intermedia.
Quella di Talamone è solo una delle forti prese di posizione della società civile, sostenuta anche da alcuni esponenti del sindacato che non riuscirà però mai a coinvolgere la federazione nel suo complesso. Né tantomeno la confederazione Cgil, Cisl e Uil, perché le ragioni etiche e umanitarie non possono frenare un commercio in piena espansione che (sulla pelle dei deboli) sta risollevando l’economia interna del Paese. L’occasione è troppo allettante per lasciarsela scappare e in particolare quando il conflitto del Golfo assume carattere di guerra di logoramento e quando le cosiddette armi leggere assumono in quell’area un’importanza rilevante.
Tra il 1980 e il 1982, per citare l’esempio più eclatante, l’azienda bresciana Valsella Meccanotecnica ottiene per sette volte dal Ministero del Commercio con l’Estero l’autorizzazione ad esportare mine anticarro e antipersona nell’ordine di 3 milioni di pezzi. E del valore di 110 milioni di dollari. Le richieste irachene però non si placano e quando risulta difficile ottenere nuove concessioni l’azienda si serve di una sua società controllata di Singapore attraverso la quale inviare comunque le armi in Iraq.
Ovviamente, lo abbiamo detto, la Valsella non rappresenterà un caso isolato. Tutt’altro.
Nel 1984 le Dogane Svedesi avviano un’inchiesta proprio sul fenomeno delle triangolazioni attraverso le quali, in questo caso, l’Iran riusciva ad ottenere forniture anche da molti Paesi che formalmente lo consideravano sotto embargo. E scoprono il coinvolgimento dell’intera rete europea dei produttori di polveri ed esplosivi nascosti dietro il paravento dell’associazione European Association for The Study of Safety Problems, fondata nel 1975 da sette grandi imprese del settore, tra cui l’italiana Snia (Società di Navigazione Industria e Commercio).
Lo spiega Francesco Terreri dell’Oscar che sottolinea come “nel 1984 il ruolo più importante di intermediazione di questi traffici” lo svolgesse, secondo l’inchiesta svedese, proprio “l’Italia”. Forte dell’assenza di “vincoli di sorta all’esportazione di armi in generale e in particolare verso i paesi del Golfo”. E grazie alla Tirrena, un’impresa di Roma che ricopre “il ruolo di rappresentante dell’intero Cartello europeo dei produttori”.
In quell’anno parte dal Bel Paese la più significativa fornitura di esplosivi all’Iran per un totale di 6milioni e 600mila dollari e in un altro capitolo doganale, alla voce “armi e munizioni”, lo stesso Iran “figura come primo cliente dell’industria italiana con 152 milioni e mezzo di dollari di forniture”. Le tonnellate di armi e munizioni che da Talamone e da altri porti nostrani salpano nel 1984 alla volta dell’Iran sono invece, secondo il rapporto svedese, 9.021. Cosa che obbliga a rivedere sotto altra luce le consistenti forniture ricevute in quel periodo dall’Italia da altri paesi Ocse.
La stessa Valsella, tra il novembre del 1981 e il dicembre 1982, riceve dalla svedese Bofors 573 tonnellate di materiale esplosivo per mine (Il commercio delle armi). Che partono alla volta dell’Iraq così come molte altre forniture provenienti dai Paesi Ocse che raggiungono il territorio iracheno passando, anche loro, attraverso Singapore. L’esercito iracheno colloca così nel Kurdistan, al nord dello Stato, “dai 5 ai 10 milioni di mine, spesso facendo uso di elicotteri. Le mine trovate – sottolinea Terreri – risultano originarie di Belgio, Canada, Cina, Germania Est, Egitto, Italia, Unione Sovietica, Spagna, Stati Uniti, oltre che prodotte in proprio su licenza e copiate. Gli elicotteri sono sovietici, francesi e italiani”.
Ancora, proseguendo sulla linea degli scandali, la Dogana Svedese rivela che le nostre armi avrebbero alimentato anche i conflitti sudafricani, mentre nel 1982 il Financial Times scrive, più precisamente, che l’Italia stava vendendo armi alla Somalia durante il conflitto con l’Etiopia.
Come se non bastasse, nello stesso anno, il 28 di giugno, un dispaccio d’agenzia Ansa riporta invece una serie di accuse mosse dall’Unione Sovietica agli Stati Uniti e alle altre potenze occidentali che avrebbero “assegnato all’Italia un compito particolare nel campo della fiorente industria bellica: ‘Vendere armamenti anzitutto a quei Paesi a cui gli Usa e le altre potenze ex-coloniali dell’Occidente ritengono politicamente inopportuno fornire apertamente armi di produzione propria’.” L’Italia, sottolinea il giornale del governo Izviestia, “’fornisce grandi quantità di armamenti ai Paesi in via di sviluppo e a stati a regime antidemocratico e di destra’. Ha ceduto armi al Portogallo ai tempi delle guerre coloniali in Africa, allo Zaire, al Pakistan, all’Arabia Saudita e al Sud Africa e anche Pechino ‘mostra un grande interesse per le armi italiane e Roma accoglie con comprensione il desiderio della Cina di procurarsene’. Per le Izviestia Roma fa una ‘politica pericolosa’ nel campo delle forniture militari vendendo grossi quantitativi di armi ai Paesi in via di sviluppo ‘sottrae loro una parte non indifferente di fondi necessari allo sviluppo dell’economia di quei Paesi e ciò a sua volta comporta una loro maggiore arretratezza e dipendenza dall’Occidente’.”
In quegli stessi anni l’azienda bresciana Valsella, attraverso l’acquisizione da parte della Borletti, entra intanto nell’orbita del gruppo Fiat e per dare un’idea di quanti fossero i guadagni basti dire che la stessa Fiat insieme all’Iri – con Finmeccanica, Stet e Fincantieri – e all’Efim – con la finanziaria Breda e Aviofer Breda nel solo 1985 fattura in totale 5.540 miliardi di lire.

La rivoluzione della 185
Negli anni successivi, mentre ci si avvia alla fine dei “gloriosi” anni Ottanta, emergono altri e più scottanti traffici che per l’opinione pubblica sono il sintomo di una situazione che è ormai divenuta insostenibile oltre ogni misura.
Per quasi tutto il decennio, nonostante gli embarghi Onu e le dure prese di posizione ufficiali dei governi occidentali contro il regime iraniano, gli stessi governi occidentali, attraverso le aziende di Stato, avevano rifornito di armi entrambe le parti in conflitto. E l’Italia, lo abbiamo visto, aveva giocato un ruolo da protagonista tanto che nel 1985 era stata aperta una commissione parlamentare d’inchiesta, neanche a dirlo subito archiviata.
A scatenare feroci proteste tra la società civile è però l’ennesima clamorosa vicenda internazionale legata, ancora una volta, a traffici con l’Iran e gestita dai servizi segreti. Si tratta dello scandalo noto come Iran-Contras o Irangate, che vedeva coinvolto il governo italiano guidato all’epoca, da Bettino Craxi. Il quale avrebbe concluso con Washington un accordo per liberare alcuni ostaggi americani in Libano ottenendo in cambio una fornitura di 5.000 tonnellate di armi al regime di Khomeini.
Il governo nega le accuse, ma missionari, associazioni e cittadini italiani non intendono tollerare oltre. E uniti sotto il comitato “Contro i mercanti della morte” chiedono con urgenza una legge che controlli le esportazioni verso le aree calde del mondo.
Contemporaneamente, la richiesta di armi dal mercato internazionale inizia ad abbassarsi fino a raggiungere i livelli assoluti dei primi anni Settanta. Cosicché tra il 1986 e il 1991 solo in un anno – il 1990 – il valore del materiale consegnato risulta superiore a un miliardo di dollari. “Tra le principali cause del declino ci sono, sul piano interno, il venir meno degli effetti della spesa pubblica a causa della ‘crisi fiscale’ dello Stato e la crisi del sistema delle partecipazioni statali, principale attore dell’industria militare italiana. Sul piano internazionale la domanda dei paesi in via di sviluppo, principali mercati delle armi italiane, si riduce per effetto della crisi economica e finanziaria (problema del debito estero) e, in parte, a seguito della fine della guerra fredda Est-Ovest. Nei segmenti di mercato in cui è presente l’industria italiana si affermano nuovi concorrenti” (Il commercio delle armi).
Inizia quindi a soffiare un vento di cambiamento e la svolta è alle porte.
A dicembre del 1986 viene promulgato il decreto intitolato “Disciplina relativa al rilascio delle autorizzazioni all’esportazione e al transito di materiale di armamento”, che contiene alcuni dei principi fondamentali di una legge che sarebbe entrata in vigore quattro anni dopo, in un momento in cui l’export italiano di armi è in piena crisi.
E che sarà approvata il 9 luglio del 1990.
E’ la legge 185 “in materia di controllo sulle esportazioni, importazioni e transito dei materiali d’armamento”: una vera e propria svolta nella storia del commercio italiano delle armi. E una vera e propria condanna per l’industria armiera che alla stessa legge – attraverso politici di destra e di sinistra – sferrerà da quel momento in poi una serie di violenti e continui attacchi. Scaricando su lei l’intera responsabilità della crisi e ritenendo danneggiata, in seguito all’introduzione dei nuovi controlli, la loro competitività sul mercato.
La nuova legge – di fatto ancora oggi la più innovativa in ambito europeo – si incardina su alcuni principi basilari riportati, in particolar modo, nell’art. 1. Tra gli altri:
la coerenza con il principio della Costituzione Repubblicana “che ripudia la guerra come mezzo delle controversie internazionali”;
il divieto di esportazione e transito di materiali d’armamento, “nonché la cessione delle relative licenze di produzione” quando “siano in contrasto con la Costituzione, con gli impegni internazionali dell’Italia e con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo e del mantenimento di buone relazioni con altri Paesi, nonché quando manchino adeguate garanzie sulla definitiva destinazione dei materiali”;
il divieto di esportazione e transito di materiali d’armamento “verso Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”, “verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione”, “verso i Paesi nei cui confronti sia stato dichiarato l’embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite o dell’Unione Europea”, verso i Paesi che secondo l’Onu o l’Ue sono responsabili di violazioni dei diritti umani.
Il comma 7 vieta inoltre “la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione e il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione o la cessione della relativa tecnologia”.
Per quanto concerne gli altri articoli è opportuno evidenziare che solo le aziende iscritte in un apposito e severo “registro nazionale delle imprese” possono commerciare in armamenti. E che hanno l’obbligo di comunicare ai ministri degli Affari Esteri e della Difesa l’inizio di qualsivoglia trattativa contrattuale, che dagli stessi ministri può essere bloccata.
Superato il vaglio e giunta a positiva conclusione la trattativa, il passo successivo è quello della domanda di autorizzazione da presentare al Ministero degli Affari Esteri, che ne dà notizia al Ministero del commercio con l’estero. E che dovrà fornire una lunga serie di dati e informazioni sulla natura e la quantità della merce nonché sul Paese acquirente, mentre il sistema sanzionatorio per chi commette illeciti è duro e intransigente.
In quanto alla garanzia di trasparenza, fondamentale è anche l’obbligo per il Presidente del Consiglio dei Ministri di riferire al Parlamento “con propria relazione entro il 31 marzo di ciascun anno in ordine alle operazioni autorizzate e svolte entro il 31 dicembre dell’anno precedente, anche con riguardo alle operazioni svolte nel quadro di programmi intergovernativi o a seguito di concessione di licenza globale di progetto o in relazione ad essi”.
Dal momento in cui entra in vigore la legge 185 le armi, in sostanza, non sono più considerate, come era in precedenza, una merce “normale”, ma il loro commercio ha indiscutibilmente un valore politico prima che economico, nell’ottica di una vera e propria rivoluzione che ridisegna nuovi equilibri.
L’idillio, però, è destinato a durare poco. Sulle variabili di una politica estera orientata alla pace e alla sicurezza, così come fortemente voluto dalle associazioni pacifiste, prevarranno ancora una volta le motivazioni di natura economico-commerciale.
E sebbene il testo di legge concepito sotto la spinta della società civile si contraddistingue per una severa rigidità, le rimostranze da parte dell’industria della Difesa nel corso degli anni si fanno sempre più pressanti e con l’andare del tempo i vincoli, lentamente ma non troppo, si allentano.
A giocare un ruolo fondamentale in questo senso saranno prima il diritto e poi una serie di accordi internazionali che faranno entrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. E che non cancelleranno mai del tutto le vendite di armi a Paesi in stato di conflitto o in cui si registrano violazioni dei diritti umani.
Un esempio si verifica già nel 1992 quando l’Italia, nonostante le chiare condanne dell’Onu ad Israele per la deportazione dei palestinesi, esporta in tutta tranquillità al Governo di Tel Aviv forte di una delibera del Cisd. Il Comitato interministeriale per gli Scambi di materiali di armamento della Difesa, al quale la legge 185 attribuisce “poteri di indirizzo generali per le politiche di scambio nel settore della difesa e di direttiva per l’esportazione, l’importazione ed il transito dei materiali di armamento”, ma che avrà vita breve.
Alla fine del 1993 verrà infatti sostituito dal Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), non prima di aver approvato alcune direttive che mirano a snaturare la 185. Come quella che il 22 dicembre del 1993 stabilisce che siano il Ministero degli Esteri e quello della Difesa a giudicare il grado di tensione tra due Stati e quindi la possibilità di fornire, a loro discrezione, qualsiasi tipo di armamento. Un’azione pericolosa in un periodo in cui la guerra di aggressione è sempre meno diffusa e più consueta quella a bassa intensità.
Nello stesso lasso temporale, inoltre, viene ammorbidito il rigido criterio di trasparenza con il quale la legge era stata concepita. E dal 1993 si inizia ad agevolare “la riservatezza commerciale delle imprese” omettendo l’obbligo di indicare l’acquirente. “Da allora in poi, quindi, non potendo individuare il destinatario di ciascuna autorizzazione, i ricercatori hanno potuto ricostruire le esportazioni solo incrociando i dati” (Armi d’Italia)
Ultima sostanziale modifica: è “venuta meno la tracciatura (cioè la possibilità di seguire ogni passaggio) delle coproduzioni realizzate in ambito europeo, che pure coprono una quota sempre più alta delle esportazioni verso i paesi UE” (Armi d’Italia)
E così gli anni Novanta, in sostanza, seppur caratterizzati da una condotta forzatamente molto più responsabile rispetto ai quarant’anni precedenti registrano comunque una serie di esportazioni verso paesi in guerra, che se nel periodo 1991-1993 sono nell’ordine del 3% del valore globale dell’export italiano (fatta eccezione per il picco del 20% circa raggiunto durante la seconda guerra del Golfo), in quello che va dal 1995 al 2000 salgono al 14,5%. Mentre le esportazioni verso i Paesi caratterizzati da violazioni dei diritti umani passano dallo 0,4% al 2,3%.
Tra i destinatari del nostro materiale bellico vi sono, nel corso di quel decennio, l’Algeria, teatro di una guerra civile che ha fatto oltre 60mila morti, l’India e il Pakistan, l’Eritrea in conflitto con l’Etiopia e i Paesi poveri e indebitati dell’Hipc (Heavily Indebted Poor Countries). Che tra il 1997 e il 2001 hanno comprato all’Italia armi per 33 milioni di Euro, aggravando i loro debiti grazie all’appoggio di banche come la Bnl, la San Paolo-Imi e la Dresdner Bank.

Tranello Farnborough
Ma è dal 2000 in poi che gli attacchi alla 185 si fanno più violenti e incisivi.
L’Unione Europea, dopo il Trattato di Maastricht, si pone il problema di creare una politica comune sul piano della sicurezza e di regolamentazione nella produzione di armamenti. E in vista di questa necessità vengono siglati una serie di accordi che inevitabilmente incideranno sulle garanzie di trasparenza e rispetto della pace della 185.
Il 12 novembre del 1996 i ministri della Difesa di Francia, Germania, Italia (Beniamino Andreatta ai tempi del governo Prodi) e Regno Unito istituiscono l’Occar (Organizzazione congiunta per la Cooperazione in materia di Armamenti): un organismo per la gestione di programmi intergovernativi che verrà ratificato dall’Italia sotto il governo Amato con la legge n. 348 del 15 novembre 2000.
Occar, secondo la gran parte delle associazioni pacifiste e dei centri di ricerca sul disarmo, “ha rappresentato il primo strappo formale a quelle garanzie di trasparenza e rispetto della pace e dei diritti umani fissate dalla legge 185, trasferendo a un organismo diverso dal Parlamento nazionale il controllo sulla gestione dello scambio internazionale di armamenti”. (Armi d’Italia) Tanto più “che il testo dell’accordo istitutivo dell’organizzazione non ha previsto alcun criterio etico nella scelta dei paesi clienti” (Armi d’Italia)
Nello stesso anno viene siglato l’Accordo di Farnborough. Un accordo quadro tra la Repubblica Francese, la Repubblica Federale di Germania, la Repubblica Italiana (ministro della Difesa Sergio Mattarella), il Regno di Spagna, il Regno di Svezia, e il Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord relativo alle misure per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea per la difesa (Gazzetta Ufficiale). Una convenzione che l’International Peace Bureau definisce incoerente con il Diritto Europeo perché, tra le altre cose, crea un mercato parallelo, con organi separati, che si pone al fuori di ogni possibile controllo giuridico e amministrativo e istituisce un vero e proprio cartello tra l’industria bellica dei sei stati firmatari che nell’ambito dell’accordo non hanno previsto criteri etici nella scelta degli acquirenti.
L’accordo di Farnborough, in straordinaria continuità con i governi di centrosinistra, viene ratificato dal governo guidato da Silvio Berlusconi. Che usandolo come grimaldello alla fine del 2001, seguendo l’onda emotiva del post 11 settembre, tenta di riformare definitivamente la legge 185.
Per farlo propone un disegno di legge di ratifica dello stesso accordo con il fine di giungere a “opportuni adeguamenti operativi” alle regole sull’export e lo fa presentare a Montecitorio dai relatori Gustavo Selva di An e Cesare Previti di Fi, già membro del Cda dell’azienda Alenia.
Il disegno di legge, approvato da tutti i parlamentari presenti fatta eccezione per due soli voti contrari, sarebbe andato a sicuro buon fine così come proposto, se a contrapporsi non fosse intervenuta, ancora una volta, la società civile.
Sul motivo di tanto interesse da parte di Parlamento e Governo (meglio detto: Governi) di svuotare la legge 185 e di lasciare campo libero alle aziende produttrici di materiali bellici vale la pena, prima di proseguire con il racconto dei fatti, soffermarsi un attimo, per ricordare e sottolineare alcuni punti fondamentali: il primo è che la gran parte dell’industria armiera italiana è a partecipazione statale il che significa che la vendita di armi costituisce un significativo introito per le casse dello Stato; il secondo, come è riportato nel Libro Bianco della Difesa del 2003 è che “il potenziale difensivo e di sicurezza di una nazione si misura sulla base della capacità operativa delle sue Forze Armate, ma dipende, in misura notevole, anche dalla credibilità e dal grado di autonomia e autosufficienza della corrispondente industria”. In poche parole, le istituzioni dovrebbero impegnarsi al massimo per sostenere queste due dimensioni della sicurezza, alle quali sono strettamente connesse le alleanze politiche internazionali.
In quanto al primo punto non è certo da sottovalutare il dato secondo cui il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla un colosso come Finmeccanica (che nel frattempo è diventata una Spa e ha acquisito una serie di realtà industriali come Alenia, Ansaldo, Elsag Bailey, Breda e altre società) con un pacchetto azionario del 32,3% nonché come possessore della golden share: quell’istituto giuridico che prevede che uno Stato, durante e a seguito di un processo di privatizzazione (o vendita di parte del capitale) di un’impresa pubblica, si riserva poteri speciali, tra cui non solo quello di riservare allo Stato un certo quantitativo azionario, bensì di nominare un proprio membro nel consiglio di amministrazione della società oggetto di privatizzazione che, a differenza degli altri componenti dell’organo di governo dell’impresa, goda di poteri più ampi.
Dopo il percorso di privatizzazione dell’Iri, iniziato nel 2000 e finito nel 2002 e dopo il passaggio di Finmeccanica da società appartenente allo Stato a società a partecipazione statale, per il Governo quindi, sotto certi aspetti, non cambia molto. Perché lo Stato rimane a tutti gli effetti azionista di riferimento dell’azienda, convertita nel ’93 in Spa, sia per questioni finanziarie che politiche e di gestione.
Mentre il doppio status della holding (azienda privata, ma di interesse pubblico) è “una carta vincente per la costituzione, da un lato, di joint venture internazionali e, dall’altro per la creazione di un polo industriale sempre più coerente e competitivo, riducendo così la frammentazione che caratterizza il comparto” (Armi d’Italia)
E le joint-venture internazionali, come quella che porta alla costituzione di Agusta-Westland risulteranno sicuramente molto proficue.
La riforma, tra l’altro, arriva in un momento cruciale della storia internazionale, segnata dagli eventi dell’11 settembre e che pone l’Italia in bilico tra l’Europa e le sue leggi e gli Stati Uniti. Anche se l’azienda preferirà sempre i rapporti con le imprese statunitensi con le quali chiuderà una serie di affari. L’ultimo, in ordine di data, risale allo scorso febbraio quando il comando missilistico e d’aviazione dell’esercito Usa ha aggiudicato a Drs Technologies, azienda del New Yersey da nove mesi interamente controllata da Finmeccanica, un contratto del valore di 913 milioni di dollari che prevede il supporto logistico, la manutenzione e la fornitura di parti di ricambio dei sistemi di visione elettro-ottici di 300 elicotteri OH-58D Kiowa Warrior. E che, ovviamente, non è compreso nel bilancio 2008 e va quindi aggiunto ai numeri, già astronomici, che abbiamo elencato in premessa.
Un precedente accordo, ma attraverso la Alenia Aermacchi, era stato invece sottoscritto con la holding statunitense Boeing integrated Defense System nel maggio del 2008.
Tali accordi, scrive su Peacereporter Antonio Mazzeo, non mancano di presentare alcune ombre.
“L’affermazione di Finmeccanica nel mercato Usa – annota – coincide temporalmente con tutta una serie di accordi segreti Roma-Washington che hanno condotto all’ampliamento e potenziamento delle infrastrutture militari statunitensi in Italia”. Ossia: “Il Dal Molin a Vicenza, la stazione terrestre del nuovo sistema satellitare Muos a Niscemi, Caltanissetta, gli aerei senza pilota Global Hawk a Sigonella, i comandi terresti e navali di Africom rispettivamente a Vicenza e Napoli”.
Finmeccanica, attualmente capitanata da Pier Francesco Guarguaglini, nominato dal governo Berlusconi, è la seconda società industriale di maggiori dimensioni del Paese dopo la Fiat. E secondo il Sipri, grazie al sostegno del Ministero dell’Economia che ne è il principale azionista, da diversi anni occupa inoltre un posto nella classifica delle prime dieci aziende al mondo per la produzione di armi e già nel 2007, con oltre 9,8 miliardi di vendite, si era posizionata al nono posto.
Cifre esorbitanti che stanno a significare che per il Governo italiano la messa al bando di talune armi, gli embarghi o le limitazioni delle esportazioni non possono rappresentare temi neutri.
Ma il motivo di tanto successo, non tutti ci pensano, dipende anche da noi cittadini o comunque su di noi ricade.
In un’Italia provata dalla crisi economica, per citare un esempio, l’acquisizione della compagnia militare americana Drs Technologies, che rappresenta la prima nel suo genere da parte di una ditta dell’Europa continentale, è costata 5,2 miliardi di dollari.
Lo scorso 20 aprile, continua invece Mazzeo, è stato lanciato in orbita il satellite militare Sicral 1B. “Parte di un ben più ampio programma di comunicazioni militari su cu il Ministero della Difesa punta per meglio integrare le forze armate italiane nella struttura di comando e controllo della Nato”.
Con l’occasione l’entourage del ministro La Russa ha fatto sapere che la missione porterà enormi ritorni di ordine finanziario per l’economia italiana. Ma “con occhio più attento, si scopre però che d’’italiano’ nei sistemi di telecomunicazione satellitare Sicral c’è poco, molto poco. Il Sicral 1 B– ricostruisce Mazzeo – è stato realizzato attraverso una Public-Private Partnership fra la Difesa e la Thales Alenia Space Alliance, un consorzio creato dal colosso dell’industria bellica francese Thales (67%) e da Finmeccanica (33%). Una partnership dove il ‘pubblico’ (dicasteri alla Difesa e allo Sviluppo Economico) assume più del 75% dei costi, circa 270 milioni di euro, mentre il ‘privato’ incamera gli eventuali profitti”.
Rimanendo in tema di aerospazio è dello scorso 12 febbraio un altro accordo di collaborazione sottoscritto dal capo di stato maggiore delle forze armate generale Vincenzo Camporini e dal commissario straordinario dell’agenzia spaziale italiana Enrico Saggese nell’ambito del programma di ricognizione Cosmo-Sky Med di seconda generazione. L’accordo, ricostruisce ancora Mazzeo, “prevede lo sviluppo, la realizzazione e la messa in orbita nel biennio 2014-2015 di ‘satelliti duali radar Sar’ destinati alle forze armate di Italia, Belgio, Francia, Germania, Grecia e Spagna. L’ennesimo programma militare a cui vengono destinati fondi in budget di ministeri nati con ben altre finalità. L’Asi, nello specifico, è un’agenzia che dipende interamente dal Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, quello diretto da Mariastella Gelmini. Quello che taglia i fondi alle scuole pubbliche”.
L’ultima ombra sulla Finmeccanica riguarda invece l’inchiesta Why Not, al tempo condotta dall’allora ex-pm di Catanzaro Luigi de Magistris, recentemente eletto al Parlamento Europeo nelle liste dell’Italia dei Valori.
“Sono certo – aveva dichiarato de Magistris ai magistrati di Salerno Nuzzi e Verasani – che vi era un’urgenza impellente di sottrarmi ad ogni costo l’inchiesta: tutto ciò per una serie di motivi legati non solo a quanto già emerso nel corso delle investigazioni e già disvelate all’esterno attraverso l’esecuzione dei decreti di perquisizione, ma anche su altri filoni investigativi sui quali mi stavo concentrando”. Tra questi “il ruolo della Finmeccanica in alcuni affari calabresi (riguardanti la presunta acquisizione illecita di finanziamenti pubblici ndr.) e l’eventualità di affari illeciti nel settore delle armi connesse ad alcuni viaggi di Scarpellini Piero, stretto collaboratore del Presidente del Consiglio Romano Prodi, in Africa”. L’azienda, nel cui consiglio di amministrazione sedeva allora Franco Bonferroni, indagato per gravi reati nelle inchieste Poseidone e Why Not sarebbe stata inoltre, proseguiva de Magistris, “una delle principali fonti di finanziamento della società Global Media, il ‘polmone finanziario’ (anche di illecita natura) dell’Udc”. Cosa che avrebbe accertato il consulente tecnico dott. Sagona che aveva individuato, si legge nel documento, “versamenti pari a circa 3.000.000 di euro da parte del gruppo Finmeccanica alla società Global Media dell’on. Cesa”.La legge cambia
Ma torniamo all’accordo di Farnborough usato, dicevamo, come grimaldello per tentare la definitiva riforma della legge 185. Attraverso un disegno di legge di ratifica che a Montecitorio ottiene il parere positivo di tutta la politica bipartisan e che sarebbe quindi passato se non ci fosse stato, ancora una volta, il deciso intervento della società civile.
Bastano infatti poche settimane dalla discussione in Parlamento e oltre 60 associazioni di sinistra e apolitiche, cattoliche e laiche si uniscono sotto lo slogan lanciato dal settimanale Vita: “In difesa della 185. Contro i mercati d’armi”. In tutta Italia i balconi delle case si riempiono di bandiere con la scritta “Pace”, i siti delle associazioni rilanciano continui comunicati e alcune riviste come la stessa Vita, Nigrizia o Mosaico di Pace si impegnano a dare battaglia con una corretta informazione.
La campagna, dal punto di vista dei numeri, è un successo.
In 14 mesi vengono raccolte 150.000 firme – 80.000 delle quali consegnate al presidente del Senato Pera da Tonio Dell’Olio, don Luigi Ciotti e padre Alex Zanotelli – inviate 15.000 e-mail ai parlamentari, presentate più di 150 mozioni provenienti da enti locali.
Grazie all’intervento della società civile i danni saranno quindi contenuti, ma la legge il 3 giugno del 2003 passa lo stesso. “Alla fine – scrive Nigrizia in un amaro editoriale del numero luglio/agosto 2003 – ci sono riusciti: il 3 giugno la Camera ha votato le modifiche alla legge 185/90. Adesso dovrebbe essere più facile vendere armi italiane all’estero. Le proteste di gran parte della società civile organizzata non sono servite a fermare la maggioranza di governo (aiutata in questo anche da parte dell’opposizione) però sono riuscite a limitare i danni e ad emendare modifiche che avrebbero potuto essere ancora peggiori”.
Il passaggio della legge che subisce la revisione più radicale è quello che prevede il divieto di vendita verso i paesi responsabili di violazioni dei diritti umani.
“Adesso – spiega Nigrizia – queste violazioni devono essere ‘gravi’ oltre che accertate”, aggettivo sul quale si aprono ampi margini di discrezionalità. “Per quanto riguarda – invece – l’autorizzazione, rilasciata dai ministeri di esteri e difesa, il governo ha introdotto la ‘licenza globale di progetto’ per ‘esportazioni, importazioni o transiti di materiale di armamento’ fatte da imprese italiane in collaborazione con imprese di paesi di Ue e/o Nato”.
I tre emendamenti passati grazie alle mobilitazioni li spiega invece l’Oscar.
“Il primo reintroduce corresponsabilità dello stato italiano nella scelta dei destinatari finali della coproduzione anche se l’esportazione viene effettuata da uno stato partner non firmatario dell’accordo quadro. In tal modo si supera il limite della delega pressoché in bianco che contraddistingueva la prima versione del disegno di legge. Il secondo reintroduce una forma di trasparenza ex post al parlamento sulla destinazione finale del materiale coprodotto, anche se esportato da un paese partner (tramite l’obbligo di riportare le autorizzazioni all’esportazione da parte di un paese partner ad un paese terzo sulla relazione annuale del governo al parlamento). Tale norma, pure presentando vaghezze nella formulazione, è di estrema importanza”.
Il terzo ripristina invece “l’obbligo alle autorizzazioni alle transazioni bancarie anche per le operazioni che ricadono sotto la licenza globale di progetto. Tale modifica è importante sotto un duplice punto di vista: dei controlli e della trasparenza”. La norma, infatti, prevede che prima di iniziare le trattative per un qualsiasi contratto, le aziende siano obbligate a chiedere l’autorizzazione al ministero degli Esteri e allo Stato maggiore della Difesa. E che una volta ottenuto il via libera e prima della chiusura dell’accordo contattino gli istituti di credito che forniranno i conti per la transazione i quali, a loro volta, dovranno chiedere l’autorizzazione al ministero dell’Economia per la chiusura della procedura d’incasso. Un vincolo che “obbliga a documentare i pagamenti e permette di seguire i flussi finanziari dei materiali di armamento e l’iter dei prezzi e componenti nell’ambito di una coproduzione in un contesto sempre più integrato e globalizzato” E che al contempo costituisce, appunto, “un’importante forma di trasparenza che permette al cittadino di operare scelte di risparmio etiche e che ha indotto alcuni istituti di credito a non appoggiare più trasferimenti di armi”.

185 e Banche Armate, la lotta continua
Si chiude così il primo round di una partita che però è ancora tutta da giocare.
La novità più grande, annotano le associazioni, è la licenza globale di progetto che dovrà essere monitorata dalla società civile così da evitare quelle pericolose triangolazioni che il nostro Paese aveva più volte messo in atto.
Ma non sarà l’unico dei problemi con i quali occorrerà confrontarsi.
Fino ad oggi, infatti, i tentativi di snaturare la legge 185 non si sono mai fermati. Nella già citata relazione di esercizio 2007 dell’Aiad si legge che prioritaria, in termini strategici, è proprio “la necessità di adeguare la disciplina nazionale in materia di esportazione con la crescente dinamica commerciale della globalizzazione; l’industria nazionale – scrive la “Confindustria” del settore armiero – risulta infatti penalizzata in maniera oltremodo significativa: dalla legge 185/90, che necessita di una concreta revisione in chiave di armonizzazione europea”. Oltre che “da procedure e tempistiche insostenibili se paragonate a quelle dei concorrenti con i quali siamo chiamati a confrontarci”.
In ultimo, richiama un aspetto fondamentale nelle operazioni di esportazione di armi verso altri Paesi: ossia il ruolo delle banche, da sempre legato all’industria della Difesa per il compito di necessaria assistenza finanziaria che svolgono nell’ambito dei rapporti di compravendita tra vari Stati, incassando compensi che possono variare dal 3 fino al 10 per cento della commessa.
La relazione sottolinea in senso dispregiativo l’”atteggiamento demagogico delle cosiddette ‘banche etiche’.”, quelle che si rifiutano di favorire le transazioni commerciali di armi, anticipando un argomento estremamente attuale emerso invece in questi ultimi mesi. E legato al rapporto del Presidente del Consiglio.
Senza alcuna spiegazione dal documento è infatti sparita, quest’anno, proprio la obbligatoria tabella degli istituti di credito che forniscono servizi d’appoggio al commercio di armi. Una tabella non marginale considerato che le autorizzazioni alle operazioni hanno raggiunto la cifra, nel 2008, di oltre 3,7 miliardi di Euro. E che lo scorso anno la campagna di pressione “Banche Armate”, promossa da Nigrizia, Missione Oggi e Mosaico di Pace aveva già denunciato un’altra immotivata sparizione: quella dell“elenco di dettaglio” delle operazioni che le banche forniscono all’export militare. Cosa che rende praticamente impossibile, come spiega Giorgio Beretta della Rete Italiana Disarmo, “giudicare l’operato delle singole banche e valutare la rispondenza delle operazioni da loro effettuate alle diverse direttive che hanno emanato negli ultimi anni”.
In seguito all’accaduto si sono sollevati cori di protesta e richieste di chiarimenti che al momento, però, non sono arrivati.
Nel frattempo il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha reso noti, ad aprile, i dati essenziali sulle operazioni di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento. E ciò che emerge è un quadro sempre più inquietante fatto di grandi affari internazionali nel quale gli istituti di credito italiani occupano posti di vertice.
Dalla lettura del documento, spiega Luca Kocci di Adista, si apprende che “raddoppia il numero di operazioni finanziarie autorizzate dal Ministero dell’Economia, aumenta di due volte e mezzo la quantità di denaro movimentata, triplicano i ‘compensi di intermediazione’ che gli istituti di credito hanno incassato dalle aziende armiere e tornano saldamente in vetta le banche di ‘casa nostra’, comprese quelle – come Intesa-San Paolo e Unicredit – che in passato, sulla spinta della campagna di pressione … avevano annunciato di voler rinunciare ad attività legate al commercio delle armi. Informazioni riservate, quelle bancarie, perché il Governo, nonostante le richieste delle associazioni e delle riviste pacifiste, non ha inserito le tabelle sulle attività degli istituti di credito nel più sintetico Rapporto sull’export/import di armi presentato alla fine di marzo.
Nel corso del 2008 – continua – sono state autorizzate nell’insieme (export-import) ‘transazioni bancarie’ per conto delle industrie armiere per un valore complessivo di 4.285 milioni di euro”. Cifra alla quale “vanno aggiunti 1.266 milioni per ‘programmi intergovernativi’ di riarmo – come ad esempio il cacciabombardiere Eurofighter, a cui cooperano Italia, Germania, Gran Bretagna e Spagna -, quasi il doppio del 2007 quando la cifra si era fermata a 738 milioni. Un volume totale di ‘movimenti’ di oltre 5.500 milioni di euro, per i quali le banche hanno ottenuto compensi di intermediazione attorno al 3-5 per cento, in base al valore e al tipo di commessa, anche se il governo comunica esclusivamente i compensi relativi alle ‘esportazioni definitive’: 66 milioni di euro”.
Ancora. In numeri, le autorizzazioni concesse nel 2008 agli istituti bancari sono 1.612 contro le 880 del 2007 e le banche che hanno fornito maggior appoggio sono, nell’ordine: Bnl-Bnp Paribas che hanno incassato 1.461 milioni di euro da commesse effettuate soprattutto fuori dai territori dell’Unione Europea e della Nato; Intesa-San Paolo (851 milioni); Unicredit (607 milioni).
Al settimo e all’ottavo posto, dopo una serie di istituti esteri, figurano l’Antonveneta (217 milioni) e il Banco di Brescia (208 milioni). E, a seguire, il Banco di Sardegna (63 milioni), il Banco di San Giorgio (30 milioni), la Banca popolare commercio industria (22 milioni); la Banca Valsabbina (17 milioni), la Carige (11 milioni), la Banca Popolare Emilia Romana (9 milioni), la Banca Popolare di Spoleto e Banca Popolare Etruria e Lazio (7 milioni), Bipop Carire (3 milioni), Bcc di Bientina e Banca popolare del Piemonte (1 milione) oltre a una serie di banche minori.
Intanto la campagna “Banche Armate”, insieme alle associazioni della Rete Italiana Disarmo, ha già annunciato che proseguirà la pressione sul Governo affinché “venga ripristinata al più presto tutta l’informazione necessaria per garantire al Parlamento e alla società civile di valutare con attenzione e rigore le operazioni effettuate dagli istituto di credito in una materia così delicata come l’esportazione di armamenti”.

Leggere ma non troppo. Dove non arriva la 185
In apparenza è soltanto un problema di definizione, ma nel concreto assume caratteristiche ben più drammatiche.
L’identificazione del “genere” di un’arma è materia di ampio dibattito, ma ciò che maggiormente preoccupa è che porta con sé una serie di conseguenze giuridiche, commerciali e sanzionatorie dalle quali dipende la vita di milioni di innocenti.
“Leggere” o “da guerra” (o ad “uso militare”) non sono infatti mere categorie entro le quali racchiudere le diverse tipologie di arma. Aspetto già di per sé controverso se si pensa che le classificazioni, sia internazionali che nazionali (spesso divergenti tra loro), non valgono a distinguerne le capacità offensive, tanto che nel sito internet ufficiale dell’Esercito Italiano si intendono per “leggere” le “armi individuali”, “di reparto” e “gli ordigni come le bombe a mano”. Le prime due, per intenderci, si riferiscono a pistole, fucili d’assalto, mitragliatrici Beretta nonché lanciafiamme, lanciagranate e fucili di precisione per tiratori scelti. Tanto “leggere” che paradossalmente, tra le armi da guerra, possiamo annoverare strumenti apparentemente ben più pacifici come i radar o i sistemi ottici.
Ma ciò che differenzia in modo sostanziale le due categorie, dicevamo, è ben altro.
Non la micidialità, quindi, né la maneggevolezza, che sembra un criterio soggetto a interpretazioni diverse. Più facilmente la distinzione poggia su elementi quali le caratteristiche balistiche e meccaniche o i criteri formali e d’impiego (Armi d’Italia), ma ciò che in realtà, per conseguenza di questo, le diversifica è la normativa che ne regola l’esportazione e, di conseguenza, la destinazione finale.
In quanto alla prima occorre chiarire subito che il loro commercio non rientra nell’ambito di disciplina della legge 185/1990 bensì in quello della legge 110/1975 (per armi da sparo le regole principali sulle esportazioni risalgono ancora al Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931). Poiché esse sono ritenute idonee alla difesa personale, oppure utilizzate per fini sportivi, da caccia o da collezione e non si ritiene che abbiano l’alta capacità offensiva delle armi utilizzate a fini bellici.
Un’interpretazione decisamente restrittiva, come denunciano le organizzazioni non governative che da anni provano, attraverso un lavoro di ampia documentazione, che nei tanti conflitti “a bassa intensità” combattuti nel mondo sono impiegate proprio le “armi leggere” dette anche “ad uso civile”.
Tra le quali, tra l’altro, sono annoverate anche le mine antiuomo e le cluster bombs, che a definire civili ci vuole un bell’ardire.
Sulle prime è bene soffermarsi un attimo. Poiché nonostante la loro messa al bando firmata nel dicembre del 1997 ad Ottawa, in Canada, da 122 governi (entrata in vigore il 1° marzo del 1999) il dramma delle mine non è ancora scongiurato.
Oltre 110 milioni di mine terrestri giacciono infatti inesplose in 82 stati, perlopiù in aree in via di sviluppo e rappresentano, ancora oggi, quella che la “Campagna italiana contro le mine” (grazie alla quale si è sopraggiunti alla messa al bando) definisce “un’arma di distruzione di massa ad azione ritardata”. Poiché “possono rimanere attive per diversi decenni, continuando a seminare terrore e paralizzare la vita di intere società ben oltre la fine di un conflitto armato”.
Attualmente ogni 20 minuti un’esplosione uccide o ferisce una persona: “nell’85% dei casi a rimanere colpita è la popolazione civile” e “il 20% delle vittime sono bambini”.
“Chi sopravvive alla deflagrazione – spiegano i volontari della campagna – necessita amputazioni, lunghe degenze ospedaliere ed un estenuante processo di riabilitazione. I più rimangono invalidi per tutta la vita. Molti altri muoiono dissanguati per le difficoltà di trasporto, o per la mancanza di soccorso o di strutture sanitarie adeguate”.
“L’assenza di una rigida classificazione per esportare armi in paesi coinvolti in conflitti armati e a governi responsabili di violazioni dei diritti umani”, ha sottolineato Amnesty International, ha agevolato le aziende produttrici, tra le quali in Italia spicca la Beretta e, ancora, la Finmeccanica. E mentre le normative che regolano l’ordine interno del Paese si fanno sempre più rigide – con una tendenza alla deriva xenofoba – non vi sono controlli per l’esportazione che non prevede limiti sulla base dello standard dei diritti umani del paese importatore e del coinvolgimento del paese stesso in una guerra interna o internazionale”.

In parole povere: proteggiamo casa nostra dai “delinquenti” e dagli sbarchi dei clandestini, che molto spesso provengono da Paesi dilaniati da conflitti che noi stessi alimentiamo.
Per esportare “armi leggere” la normativa richiede infatti soltanto l’autorizzazione di un questore, con tutto ciò che questo comporta anche in termini di tracciabilità: senza un preciso elenco delle transazioni commerciali non è infatti possibile avere dati ufficiali ed esaustivi. Mentre sulla base dell’esistente, ricostruisce il rapporto 2008 dell’organizzazione internazionale “Small Arms Survey”, sappiamo che il nostro Paese si riconferma al secondo posto tra i principali esportatori dopo gli Stati Uniti e prima di Germania, Belgio, Australia, Brasile, Russia e Cina. Tutti inseriti in un contesto più ampio in cui 51 sono i Paesi produttori.
Le armi leggere attualmente presenti al mondo sarebbero circa 640 milioni, 1 ogni 10 abitanti, concentrate maggiormente nelle zone interessate da instabilità e conflitti; in 46 delle 49 guerre combattute negli anni Novanta sono state le armi più usate e il loro giro d’affari annuo si aggira intorno ai 4 miliardi di dollari.
Secondo l’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, a partire dagli anni Novanta si sono inoltre affermate come “protagoniste indiscusse nei conflitti a ‘bassa intensità’” e come le più strette alleate “di chi ha violato e continua a violare i diritti dell’uomo causando la morte di milioni di civili”. Mentre sono Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini a scrivere in Armi d’Italia che attualmente sono responsabili della morte del 90 per cento della popolazione civile che cade in seguito a eventi di natura bellica. Che in soldoni significa un numero di vittime stimato tra i 200.000 e i 300.000 l’anno.
A usufruirne maggiormente, si apprende dalla stessa fonte, i Paesi in via di sviluppo. Non solo per la facilità del loro trasporto, ma per il loro basso costo, per la reperibilità (“a differenza delle armi a uso militare, sono presenti contemporaneamente sul mercato civile e militare, il che aumenta la loro disponibilità su quello clandestino”), per l’efficacia e per la facilità di utilizzo.
Caratteristica, quest’ultima, che rappresenta una condanna per migliaia di bambini utilizzati come soldati in un numero sempre crescente di conflitti.
Attualmente circa 500mila bimbi sono impiegati negli eserciti regolari e nei gruppi di opposizione in 85 Paesi. Più di 250mila di questi prendono parte ai combattimenti in 35 Paesi e ben 120.000 solo nel continente africano. La maggioranza di loro ha un’età che varia dai 15 ai 18 anni, che per alcuni scende a 10 e la tendenza è verso un ulteriore abbassamento (bambinisoldato.it). Il motivo? Semplice: i piccoli imparano in fretta, sono più remissivi di un soldato adulto se viene loro dato un ordine o affidato un compito pericoloso, non vengono pagati mentre se muoiono si trovano in fretta dei sostituti.
In Uganda, i cosiddetti “guerriglieri di Dio” del Lord’s Resistance Army, guidati dal generale Joseph Kony, spesso sono costretti a usare i fucili, la prima volta, contro i loro stessi familiari. E dal novembre 2008, 300 nuovi bambini hanno ingrossato le fila della guerriglia che secondo dati aggiornati al 2005 contava già 25.000 minori rapiti e ridotti in schiavitù.
Secondo l’ultimo aggiornamento Unicef, invece, solo nel Congo, dal 1998 ad oggi, sarebbero stati rapiti 33mila bambini, poi trasformati in soldati. Ma molto spesso, alcuni ragazzi aderiscono come volontari.
“In questo caso – spiega il sito bambinisoldato.it – le cause possono essere diverse: per lo più lo fanno per sopravvivere, perché c’è di mezzo la fame o il bisogno di protezione. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, nel ’97 da 4.000 a 5.000 adolescenti hanno aderito all’invito, fatto attraverso la radio, di arruolarsi: erano per la maggior parte ‘ragazzi della strada’. In alcuni casi ciò che spinge i ragazzi ad arruolarsi è il desiderio di ritrovare un’identità o la volontà di rivalsa. Il desiderio di vendetta li spinge ad imbracciare un fucile o un machete per scaricare il dolore nella violenza quando – fatto ricorrente in guerre etniche – hanno visto i propri genitori o parenti subire violenze da parte del gruppo opposto”.
Prima delle operazioni militari, raccontano alcuni testimoni, i piccoli vengono drogati e i loro addestramenti sono crudeli, perché crudeli devono essere le missioni (ilpaesedeibambinichesorridono.it)
Ma non tutti i bambini soldato sono combattenti – molti di loro fungono da esche o da guardie, svolgono azioni logistiche o di supporto (per esempio posizionare mine ed esplosivi), fanno ricognizioni – e non tutti sono maschi. Al contrario, le bambine costrette a partecipare direttamente ai conflitti armati sono in numero sempre crescente (secondo fonti Onu una su 3) e forse sono quelle che pagano le conseguenze più pesanti. La decisione di arruolarsi avviene infatti per sfuggire alla vita di strada, alla quale sono costrette dopo essere rimaste orfane, ma il sogno di trovare una protezione tra le fila dell’esercito sfuma immediatamente: ridotte in schiavitù subiscono ogni sorta di violenza e abuso e altissimo è per loro il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili, come l’Aids, o di rimanere incinte.
Neppure i programmi di disarmo, smobilitazione e riabilitazione sono sufficientemente adeguati per risolvere le loro situazioni. Poiché essi non tengono conto del timore di queste ragazze ad essere identificate dalle comunità di appartenenza come “mogli” dei combattenti e i loro bimbi come “figli dei ribelli”. Mentre spesso sono gli stessi ribelli che si rifiutano di rilasciarle, preferendo tenerle prigioniere.
Ma anche chi riesce a sopravvivere alla guerra o a sfuggire alla schiavitù ha, nella maggior parte dei casi, comunque, il destino segnato. Ferite, mutilazioni, gravi malattie e tormenti psicologici: “Senso di panico e incubi continuano a perseguitare questi ragazzi anche dopo anni”. E “a tutto questo – si legge sul sito di denuncia bambinisoldato.it – si aggiungono le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà dell’inserirsi nuovamente in famiglia e del riprendere gli studi spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Le ragazze poi, soprattutto in alcuni ambienti, dopo essere state nell’esercito, non riescono a sposarsi e finiscono col diventare prostitute”. L’uso dei bambini e bambine soldato, inoltre, “ha ripercussioni anche su gli altri ragazzi e ragazze che rimangono nell’area del conflitto, perché tutti diventano sospettabili in quanto potenzialmente nemici. Il rischio è che vengano uccisi, interrogati, fatti prigionieri”. Mentre alcune volte possono rappresentare “un rischio anche per la popolazione civile in senso lato: in situazioni di tensione sono meno capaci di autocontrollo degli adulti e quindi sono ‘dal grilletto facile’.”
In tutto questo la responsabilità del nostro Paese è altissima.
E in aperto contrasto con gli impegni assunti dal governo in occasione della candidatura italiana a componente del nuovo Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani per il triennio 2007-2010. Nel suo ultimo rapporto Amnesty International ricorda che la promessa era quella di “tutelare i diritti dell’infanzia, specialmente dei minori coinvolti nei conflitti armati” e che a settembre 2007 il ministero degli Affari esteri aveva presentato uno speciale: “‘Minori soldato una sfida ancora aperta’ in cui evidenziava il ruolo dell’Italia nel contrastare l’utilizzo dei bambini soldato”.
Belle parole, ma cariche di una sfacciata ipocrisia. E di fronte ad un commercio che tra il 1995 e il 1999 è incrementato del 2,8% (passando da 869 a 900 miliardi di lire), destinate a rimanere lettera morta.
Nel gennaio del 2008, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha presentato il Rapporto Annuale 2007 destinato all’attenzione del Consiglio di Sicurezza, rendendo pubblici dati che confermavano il reclutamento e l’utilizzo di bambini soldato in diversi Paesi già segnalati nel 2006. Tra questi: Burundi, Ciad, Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Nepal, Filippine, Uganda e Afghanistan. Tutti Paesi nei quali l’Italia, tra il 2002 e il 2007, spiega Amnesty, “ha autorizzato l’esportazione di armi leggere e di piccolo calibro verso soggetti privati o statali”.

Conclusioni
I dati , i fatti e le circostanze sin qui esposte, in maniera strettamente sintetica, vogliono solo fornire un primo quadro dei terribili crimini dei quali il nostro Paese si è macchiato nel corso della sua storia moderna. E dei quali continua a macchiarsi.
Dietro ai numeri, alle percentuali, alle statistiche ci sono milioni di vite umane nel migliore dei casi finite su un campo di battaglia, nel peggiore costrette a vivere condizioni atroci e disumane.
Le storie che provengono da oltre confine, gli orrori dei sanguinari conflitti africani, delle barbare esecuzioni in Iran e Iraq, delle torture di stato dei cosiddetti stati canaglia, ma anche dei Paesi occidentali ci appartengono più di quanto possiamo immaginare. I barconi della speranza che respingiamo dalle nostre coste, violando ancora una volta i principi della nostra Costituzione, sono il risultato anche delle nostre colpe. E non sono rare le storie di immigrati cacciati dal nostro Paese e poi torturati e uccisi una volta rimesso piede nella terra dalla quale erano disperatamente fuggiti.
Se non si comprende questo non si può fare un’analisi obiettiva dell’attuale situazione, non si può parlare con serenità di sicurezza né di lotta al terrorismo né di violazioni dei diritti umani.
Le responsabilità del nostro Paese non possono essere cancellate con un colpo di spugna e come cittadini di una Nazione che con il mercato della guerra ha risollevato la propria economia dovremmo avere il dovere morale di appoggiare le associazioni pacifiste e umanitarie che chiedono più chiarezza e più regole all’esportazione selvaggia e che mettono i diritti l’uomo davanti agli interessi politici ed economici.
Entro il 31 dicembre di quest’anno il Governo italiano dovrà decidere se attuare il programma pluriennale relativo all’acquisizione del sistema d’arma Joint Strike Fighter (JSF), che prevede la partecipazione italiana alla produzione e acquisto di 131 cacciabombardieri F-35 che impegnerà il nostro Paese fino al 2026. Con una spesa di quasi 15 miliardi di Euro.
Capofila del progetto sono gli Stati Uniti e tra i partecipanti, oltre all’Italia, vi sarebbero, in varie forme, Regno Unito, Olanda, Turchia, Canada, Australia, Norvegia e Danimarca.
La Rete Italiano per il Disarmo e la campagna Sbilanciamoci, alle quali aderiscono 70 associazioni, si sono fortemente opposte al progetto e hanno organizzato una serie di manifestazioni per fare pressione sul Governo.
Ma la loro vittoria sarà difficile se si guarda al contesto internazionale nel quale il nostro Paese è inserito e che ci riporta al ragionamento iniziale.
L’aumento della spesa militare globale – nell’ordine del 4% nel 2008 e del 50% negli ultimi dieci anni – evidenzia l’esistenza di una nuova corsa agli armamenti, che ha coinvolto tutti gli stati del mondo: dagli Usa (che si confermano al primo posto) alla Cina, dalla Russia ai Paesi del Sudamerica a quelli del Medio Oriente
A seguito di tale incremento gli esperti sono perseguitati da un inquietante interrogativo: “Per quale guerra si preparano le potenze?”, “Un nuovo conflitto intercapitalista?”.
Sam Perlo-Freeman parla di guerra al terrorismo come pretesto “per giustificare le loro alte spese militari” che in realtà puntano a qualcos’altro: ossia le risorse energetiche e strategiche del pianeta che serviranno a garantire la sopravvivenza delle potenze capitaliste. Motivo per cui i prossimi Paesi da colpire – come pianificato da tempo – saranno l’Iran e la Siria.
E motivo per cui risulterebbe logico il disinteresse verso le richieste dell’Onu, che ha annunciato come per combattere la fame nel mondo sarebbe sufficiente stanziare solo l’1% della finanziaria per la Difesa Usa.
Il Pentagono, spenderà nel 2009 730.000 milioni di dollari per sostenere l’enorme struttura militare che fino ad ora le garantisce di imporsi come prima potenza imperiale su scala mondiale. Lo seguiranno a ruota i Paesi dell’”asse occidentale”, nei quali l’Italia non farà eccezione, ma anche quelli dell’”asse asiatico” e “islamico”.
Tre blocchi centrali che quando la crisi economica mondiale si retroalimenterà con quella energetica potranno fungere da detonatore per una crisi molto più seria e ben sintetizzata nel titolo di un articolo di Manuel Freytas apparso su Iar Noticias qualche giorno fa. E che prendiamo a prestito: “Sappiate – dice – che siete seduti sulla terza guerra mondiale”.

IL MONDO SEDUTO SU UNA BOMBA NUCLEARE A OROLOGERIA
di Monica Centofante

A Celjabinsk, provincia russa degli Urali meridionali, dove alcune città sono dimenticate perfino dalle mappe geografiche, l’aria è carica di morte. Una morte silenziosa e invisibile che ha già trascinato con sé centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini.
Di queste zone, fino al 1991 inaccessibili agli stranieri, quasi nessuno conosce l’esistenza. Eppure è qui che sorge, ed è ancora abitato, il luogo più contaminato della Terra da rifiuti radioattivi.
Si chiama Celyabinsk-40, più noto come Mayak, e insieme a Celyabinsk-65 e Celyabinsk-70 è uno dei centri segreti russi che dopo la seconda guerra mondiale ospitarono i maggiori complessi nucleari dell’Unione Sovietica.
Dal 1949 al 1967 Mayak è stata una pattumiera di rifiuti radioattivi. Sversati in particolare nel fiume Techa e nel lago Karachy, che ora non presentano più forme di vita. Mentre tumori e malformazioni congenite – spiega Franco Valentini di rinnovabili.it – colpiscono da anni la popolazione locale formata per la maggior parte da contadini che vivono in condizioni di estrema povertà e ignoranza e che sono stati esposti ad una quantità di radiazioni pari a quella ricevuta dai superstiti di Hiroshima e Nagasaki.
Quante Mayak ci siano nel mondo nessuno può dirlo con certezza. Ma le informazioni che si raccolgono delineano un quadro tutt’altro che rassicurante.
In tutta la Russia, in quarant’anni di guerra fredda, decine di milioni di metri cubi tra rifiuti solidi e liquidi sono stati disseminati nell’ambiente e molto simile è la situazione degli altri Paesi che hanno sviluppato attività e programmi nucleari. A partire dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Gran Bretagna o dalla nostra Italia, dove di recente si è tornato a discutere della concreta possibilità di un ritorno all’atomo, nonostante non sia ancora stato risolto il problema delle scorie accumulate in passato.
Secondo l’INSC (International Nuclear Societes Council), l’industria nucleare mondiale produce all’anno qualcosa come 270.000 metri cubi di scorie, tra media, bassa e alta radioattività. Una quantità che paragonata ai rifiuti di centrali a fonti fossili tradizionali non è eccessiva, ma che rappresenta un problema ancora insormontabile per la comunità scientifica mondiale nel lungo termine. Il combustibile spento e scaricato di reattori ad uranio mantiene infatti una pericolosità elevata per un milione di anni. Mentre le terre e le acque che ne vengono in contatto diventano esse stesse radioattive mantenendosi in questo stato per centinaia di migliaia di anni. E provocando effetti devastanti su qualsiasi forma di vita circostante.
Uno studio del Dipartimento della Salute degli Stati Uniti – per citare un solo esempio – ha provato che i due terzi delle morti causate da tumore al seno tra il 1985 e il 1989, in America, si sono verificate in un raggio di circa 160 chilometri dai reattori nucleari. E considerato che negli Usa le centrali sono più di cento e le scorie prodotte circa 37 milioni di metri cubi stipate in depositi di fortuna sparsi per il Paese, si può solo intuire quale sia l’entità del rischio in termini di vite umane solo in territorio americano.
Nel resto del mondo la situazione, seppur ridimensionata, non è differente.
In Europa – dove i rifiuti radioattivi provengono perlopiù dal settore civile – si parla di circa 40.000 metri cubi di scorie l’anno. Dei quali Francia e Gran Bretagna detengono il primato sia a causa del numero di reattori attivi presenti sui loro territori sia per gli importanti programmi militari svolti. E per avere un’idea più precisa basti pensare che solo la Francia ne produce annualmente una quantità pari a quelle presenti nel nostro Paese dal 1987, anno in cui con un referendum seguito all’incidente di Chernobyl abbiamo scelto di rinunciare al nucleare. Da allora il problema dei rifiuti speciali non è mai stato risolto e, sebbene non se ne parli, rappresenta una delle principali cause di morte in alcune zone del nostro Paese.
A distanza di oltre 20 anni da quella decisione, infatti, le scorie – circa 30mila metri cubi destinati a crescere – sono custoditi in condizioni di sicurezza precaria e gli impianti non ancora completamente smantellati.

Il caso Italia
Nella centrale nucleare più grande d’Italia – quella di Caorso, vicino a Piacenza – vi sono ancora 700 barre di combustibile con 1.300 Kg di plutonio: materiale recuperabile per il 97%, perché ancora utile per produrre energia elettrica, ma che per questo sarà consegnato ai francesi. Mentre a noi torneranno le scorie.
Dove le metteremo è la grande incognita. Soprattutto perché quello della centrale di Caorso non è di certo un caso isolato.
Il problema dello smaltimento delle scorie nucleari, in Italia, è tanto sconosciuto quanto attuale e non raramente si intreccia con i lucrosi interessi gestiti dalla criminalità organizzata, che in questo campo non agisce solo per proprio conto. L’ultima delle tante prove è nelle recenti cronache sul ritrovamento di una nave contenente rifiuti speciali, scoperta sui fondali del Mediterraneo al largo della costa di Cetraro, nel Tirreno Cosentino. Ad indicarne la presenza, un pentito della ‘Ndrangheta, che avrebbe parlato di una serie di imbarcazioni, forse una trentina, contenenti grandi quantità di scorie radioattive e fatte affondare negli anni Ottanta e Novanta in diversi tratti di mare nel quadro di un accordo siglato tra le cosche e oscuri faccendieri.
Qualcosa di simile, ma sulla terraferma, sarebbe avvenuto a Pasquasia, una cittadina in provincia di Enna, un tempo conosciuta per la sua miniera di Sali alcalini misti ed in particolare Kainite per la produzione di solfato di potassio. Un sito che dagli anni Sessanta fino al 1992 ha dato lavoro a migliaia di persone e che da allora, a quanto pare, semina morte.
Le prove ufficiali non ci sono, ma voci di popolo e una serie di indagini sempre ostacolate hanno sollevato il dubbio che all’interno della miniera siano stoccati rifiuti nucleari: scorie di medio livello radioattivo delle quali la popolazione non deve sapere nulla.
Nel 1996 aveva provato a rompere il silenzio l’allora onorevole Giuseppe Scozzari, seguito dall’onorevole Ugo Maria Grimaldi, all’epoca assessore al Territorio e Ambiente alla Regione Sicilia. Entrambi furono isolati e non riuscirono ad approdare ad alcun risultato concreto, ma le loro personali inchieste avevano portato alla luce una realtà inquietante: i casi di tumore e leucemia erano aumentati nel solo biennio 1995/96, nella zona di Enna, del 20% mentre Pasquasia e “l’intera Sicilia rischiava di essere trasformata in una pattumiera dell’Europa”. Grimaldi aveva denunciato la presenza di amianto in tutto il territorio provinciale, nelle cave abbandonate ed in altri siti. Scozzari aveva chiesto un’interrogazione parlamentare e tentato l’ingresso nella miniera, convinto che fosse gestita da organizzazioni criminali senza nessun consenso formale da parte dello Stato.
E invece, se è vero che parte di quei terreni appartenevano (e apparterrebbero) a persone in odore di mafia vero è anche che erano state proprio le istituzioni italiane – e internazionali – a negargli l’accesso. Allo stesso modo in cui, ancora oggi, negano la presenza delle scorie mentre le analisi effettuate dall’Usl già nel 1997 rivelavano l’esistenza in quella zona di Cesio 137 in concentrazione ben superiore alla norma. Il che poteva significare che non solo i rifiuti nucleari c’erano – e quindi ci sono – ma che si era addirittura verificato un inaspettato incidente nucleare, con relativa fuga di radioattività, probabilmente durante una sperimentazione atta ad appurare la consistenza del sottosuolo della miniera su eventuali dispersioni di radiazioni.
Una tragedia, per la popolazione circostante, tenuta sotto totale silenzio.
Anche il pentito di mafia Leonardo Messina, già membro della cupola di Cosa Nostra, aveva parlato di Pasquasia e della presenza di rifiuti radioattivi nella miniera all’interno della quale aveva lavorato come caposquadra. Secondo il suo racconto – sul punto considerato attendibile dal Procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna – le attività illegali, in quella zona, proseguivano dal 1984: quando l’Enea (all’epoca Ente nazionale per l’energia atomica) aveva avviato uno studio geologico, geochimico e microbiologico sulla formazione argillosa e sulla sua resistenza alle scorie nucleari. E quando funzionari del Sisde avrebbero contattato l’amministrazione comunale per richiedere il nulla osta a seppellire in loco materiale militare di non meglio specificata natura. Cosa che proverebbe l’utilizzo della miniera come deposito di scorie ancora prima della sua dismissione e che spiegherebbe il motivo per cui dopo il 1992 il Corpo regionale delle miniere ha interrotto l’attività di vigilanza e di manutenzione degli impianti e la Regione ha affidato il controllo degli accessi alle miniere a quattro società di sicurezza privata, attualmente rimosse dall’incarico.
Nel 1997 la procura di Caltanissetta aveva disposto un’ispezione su una galleria profonda 50 metri costruita all’interno della miniera proprio dall’Enea e aveva rilevato la presenza di alcune centraline di rilevamento rilasciate dall’Ente, ma che non si riuscì a chiarire che cosa esattamente dovessero misurare. Forse la radioattività?

Scorie immortali
Negli annuali rapporti di Legambiente sulle cosiddette Ecomafie il riferimento al traffico di rifiuti radioattivi è una costante. Ammassati in improbabili cave, si legge, gettati in mare o seppelliti senza particolari misure di sicurezza possono penetrare il suolo e contaminare terre e falde acquifere, oltre a causare danni irreparabili alla flora e alla fauna marina di cui ci cibiamo.
In gioco, insomma, c’è la salute e la vita di tanti cittadini mentre la dimensione del problema appare decisamente fuori controllo.
Le mafie che si occupano di questi traffici, infatti, sono molteplici e non sono solo italiane. Mentre scandali come quelli di Pasquasia si registrano in ogni parte del mondo e hanno spesso coperture di alto livello.
A febbraio di quest’anno, per citare uno degli esempi più recenti, è venuto alla luce uno dei segreti più pericolosi sullo smaltimento dei rifiuti radioattivi che le guerre balcaniche e lo stesso Trattato di Dayton hanno occultato negli anni. Ne parla Fulvia Novellino su Rinascita Balcanica, ricostruendo un vero e proprio traffico di scorie e materiali radioattivi verso la Bosnia organizzato, secondo indiscrezioni provenienti dall’interno dei servizi segreti locali, “dalla stessa missione di pace Nato in Bosnia-Erzegovina, attraverso la quale la Francia ‘esportava’ grandi quantità di rifiuti radioattivi, che venivano poi gettati nei laghi della Erzegovina”. Una “comoda soluzione”, per lo stato francese, per risolvere l’annoso problema dello smaltimento dei rifiuti tossici che accomuna tutti i governi che si servono dell’energia nucleare.
Il problema dello stoccaggio e della messa in sicurezza delle scorie appare infatti insormontabile e distante anni luce da una possibile soluzione. Mentre anno dopo anno i rifiuti si accumulano in maniera vertiginosa.
Fino ad oggi si è tentato di neutralizzare soltanto le scorie meno pericolose, quelle che mantengono la radioattività per circa 300 anni e lo si è fatto utilizzando perlopiù depositi di superficie e quasi mai cavità sotterranee o depositi geologici profondi. Per i rifiuti ad alta radioattività non si è riusciti a fare assolutamente nulla, spiega invece Marco Cedolin su Terranauta, perché “tutto il gotha della tecnologia mondiale ha dimostrato di non avere assolutamente né i mezzi né tanto meno le conoscenze tecnico/scientifiche per affrontare un problema che travalica di gran lunga le capacità operative degli esseri umani”.
Per il momento, solamente gli Stati Uniti hanno tentato l’impresa, che si sta rivelando ardua e scarsamente risolutiva.
Il Dipartimento dell’Energia statunitense ha infatti pensato alla creazione di un grande sito di stoccaggio definitivo nel quale trasportare il materiale radioattivo raccolto nelle aree maggiormente inquinate del Paese: sito che potrà essere costruito nel giro di 70 – 100 anni, con una spesa complessiva che varierà dai 200 ai 1000 miliardi di dollari. In poche parole: il progetto più costoso e complesso che la storia ricordi.
La meta prescelta per l’ardita operazione è il Monte Yucca, situato nel Nevada meridionale a circa 160 Km a nord ovest di Las Vegas , in una zona collocata all’interno della cosiddetta Area 51. Il luogo migliore, secondo i progettisti, per scavare una serie di tunnel sotterranei della lunghezza di 80 Km che correranno e a una profondità di 300 metri, saranno rivestiti di acciaio inossidabile e titanio e una volta terminati potranno contenere 77.000 tonnellate di scorie radioattive attualmente in giacenza in 131 depositi dislocati all’interno di 39 differenti stati.
Un’opera titanica quanto quella del trasporto, che prevede l’utilizzo di 4600 fra treni e autocarri che per giungere a destinazione dovranno attraversare, con il loro pericolosissimo materiale, ben 44 stati con tutti i rischi del caso.
Secondo gli esperti che stanno lavorando al progetto – e che hanno già speso circa 8 miliardi di dollari soltanto per gli studi preliminari del terreno – una volta terminati i lavori di scavo e di preparazione del sito (previsti inizialmente per il 2010, ma già slittati al 2017) il deposito rimarrebbe in attività per qualche decina di anni prima di essere riempito completamente. E una volta chiuso dovrebbe impedire la fuoriuscita delle scorie dell’ambiente per i successivi 10.000 anni.
Il che in parole povere significa che la gigantesca opera non servirà a nulla.
La National Academy of Sciences e il National Research Council hanno infatti ricordato che il materiale radioattivo rimarrà tale per centinaia di migliaia di anni e che il lasso di tempo previsto dal progetto non può quindi essere definito una “messa in sicurezza”. Tanto più che sussistono innumerevoli dubbi sulla reale capacità del sito di preservare il materiale radioattivo anche nel corso di quei 10.000 anni visto che l’umidità presente nell’area, seppur modesta, avrebbe tutto il tempo di corrodere i contenitori delle scorie riversando il materiale nelle falde acquifere e nei pozzi circostanti causando seri problemi alle popolazioni circostanti (1.400.000 persone); mentre il calore connaturato nei rifiuti nucleari rinchiusi all’interno di una montagna priva di sistemi di raffreddamento potrebbe avere gravi conseguenze.
A questa e a numerose altre perplessità che hanno aperto un ampio dibattito nel mondo scientifico e politico americano si aggiunge infine un particolare di non poco conto: il Dipartimento dell’Energia ha denunciato presunte omissioni e irregolarità dei tecnici del servizio geologico, che avrebbero costruito in maniera fraudolenta “elementi che confermassero la sicurezza del sito di Yucca Mountain”.

Senza via d’uscita
Il problema, ancora una volta, sembra quindi rimanere irrisolto. E se a quanto sin qui detto si aggiunge l’inquinamento provocato dall’utilizzo dell’uranio impoverito, sia per scopi bellici che civili, o i vari incidenti nucleari che si sono verificati nel corso degli ultimi decenni si può solo intuire l’entità del dramma.
Nel 1957 a Windscale, oggi Sellafield, nel West Cumberland, in Gran Bretagna un piccolo reattore adibito alla produzione di uranio e di plutonio per usi militari prese fuoco provocando la parziale fusione del nocciolo e la fuoriuscita di gas e materiali radioattivi che contaminarono una vastissima area intorno all’impianto. La popolazione non fu avvertita fino a che l’incendio non fu quasi completamente domato.
Il 1986 è l’anno della sciagura di Chernobyl;
Dal 1987, nella centrale di Ignalina, in Lituania, sono stati registrati due incidenti;
nel 2006 un sottomarino nucleare della marina russa, nel mar di Barents, ha fatto i conti con un incendio scoppiato nei locali tecnici del reattore nella prua rischiando di ripetere la tragedia del Kursk di sei anni prima e, più recentemente, la centrale francese di Tricastin ha disperso una soluzione di uranio nei fiumi circostanti;
mentre la centrale di Kashiwazaki-Kariwa, in Giappone, la più grande del mondo, ha subito gravi danni a causa di un terremoto con conseguente serie di fughe radioattive dall’impianto.
La lista potrebbe continuare, perché gli incidenti finora conosciuti sono almeno una settantina.
E mentre la situazione peggiora di ora in ora e la follia umana non si placa il mondo è seduto su una bomba nucleare a orologeria.

Ho scritto il 22 settembre 2009.A tutti i lettori.
Agli amici e fratelli spirituali.
Il Messaggio che leggerete con allegati due articoli della stampa nazionale è drammatico e inquietante. Mi rendo conto e so benissimo che non siete stati educati dalle Religioni alla conoscenza di un Dio Giustiziere e castigatore. Ma la verità è questa. Dio non è solo Amore, ma anche Suprema Giustizia. La Bibbia è costellata di interventi Purificatori che Il Padre scatena sulla terra per somma Giustizia. Il diluvio universale, Sodoma e Gomorra, ecc .ecc. Lo stesso Cristo nel capitolo 24 di Matteo annuncia a tutto il mondo la Sua venuta con severa giustizia. Anche per i laici non credenti, ma che praticano l’amore e la giustizia, non deve essere difficile comprendere che la Natura è ai limiti della sopportazione e crea degli effetti dirompenti contro l’uomo che continua a violentare la sua cosmica natura. Per tanto il MESSAGGIO che leggerete è giusto, è logico e dovrebbe suscitare in tutti noi umiltà, pentimento e soprattutto voglia di fare per essere tra quelli che un giorno potranno degnamente ricostruire un mondo nuovo rinato dalle macerie del vecchio.
Vi abbraccio con Amore
vostro Giorgio Bongiovanni

DAL CIELO ALLA TERRA

I FRATELLI ASTRALI DELLA LUCE SOLARE COMUNICANO:

LE ARMI DELLA MORTE E L’IRA DI DIO!

SIETE SULL’ORLO DELL’AUTODISTRUZIONE. LA VOSTRA CADUTA È IRREVERSIBILE.
AVETE PERDUTO I VALORI BASILARI CHE RENDONO LIBERO E UNICO LO SPIRITO INDIVIDUALE.
PECCATO!
PAGHERETE CARI I VOSTRI ERRORI E SOPRATTUTTO LA PERSEVERANZA DI QUESTI: L’ODIO, LA VIOLENZA, LA SETE DI POTERE,  IL CINISMO E LA MOSTRUOSITÀ DEI VOSTRI SENTIMENTI NEI CONFRONTI DEI VOSTRI FIGLI CHE ODIATE E TORTURATE  SENZA TIMORE DI ESSERE CASTIGATI DA DIO.
SOLO COSÌ, CON QUESTA LOGICA E CERTA INTERPRETAZIONE POSSIAMO SPIEGARE IL PERCHÈ E QUINDI QUALI SONO LE CAUSE ASSURDE E DIABOLICHE CHE SPINGONO I VOSTRI POTENTI DELLA POLITICA, DELLE RELIGIONI, DELL’ECONOMIA E DELLE FORZE MILITARI A PORRE IN ESSERE O A PERMETTERE IL COMMERCIO DELLE ARMI, ANCHE NUCLEARI, E LA DISTRUZIONE DELL’HABITAT IN CUI VIVETE A CAUSA DELLE MIGLIAIA E MIGLIAIA DI SCORIE RADIOATTIVE SPARSE IN TUTTI I MARI E IN MOLTE COLLINE DEL VOSTRO MONDO.
VOI AVETE PERSO IL DIRITTO DI ESSERE CHIAMATI UOMINI!
VOI  AVETE PERSO IL DIRITTO DI POSSEDERE IL LIBERO ARBITRIO!
VOI AVETE PERSO IL DIRITTO DI ESISTERE E MANIFESTARE LE QUALITÀ TIPICHE DELL’HOMO SAPIENS! PER TALE RAGIONE STIAMO PREPARANDO DEI NUOVI NOÈ, DELLE NUOVE ARCHE CHE NON CONOSCERANNO LE ACQUE E QUANDO TUTTO SARÀ PRONTO IL NOSTRO E VOSTRO MONARCA UNIVERSALE ADONAY ARAT RA SCATENERÀ UN NUOVO DILUVIO DI FUOCO AFFINCHÈ IL PIANETA SIA PURIFICATO E LA MAGGIOR PARTE DI VOI STERMINATI E ANNIENTATI (Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’Uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a

quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e li sterminò tutti. Matteo 24, 37-40).
MA QUEI GIORNI PROSSIMI A MANIFESTARSI NON DETERMINERANNO LA FINE DEL MONDO, ANZI SARÀ IL PRELUDIO ALLA GRANDE, POTENTE E GLORIOSA MANIFESTAZIONE SULLA TERRA DEL FIGLIO DI DIO GESÙ- CRISTO. È QUELLO IL GIORNO DELLA VERITÀ, PERCHÉ ALLORA E SOLO ALLORA SARANNO GIUDICATI I VOSTRI SPIRITI E SI DECIDERÀ LA VOSTRA SORTE: LA SALVEZZA O LA MORTE SECONDA. PER MOLTI, MOLTISSIMI SARÀ LA CONDANNA. PER POCHI, POCHISSIMI LA CERTEZZA DI FAR PARTE DEL REGNO DI DIO PROMESSO DA TUTTA LA LEGGE E I PROFETI. IL PARADISO CHE CRISTO STABILIRÀ SULLA TERRA INSIEME AI GIUSTI, AI BEATI E AGLI AMANTI DELLA VITA.
PACE!