FUNIMA A TU PER TU CON GIOVANNI MARROZZINI
Di Barbara Drago
Prima di svolgere un reportage…descriveresti l’emozione ed il tipo di aspettativa che hai rispetto alla realtà che ti accingi a documentare?
Il mio modo di fotografare è un sistema dinamico caotico.
L’ordine è una percezione solo mia.
Sono sensibile alle condizioni iniziali, vale a dire alle variazioni infinitesime di realtà, cerco di legarmi ad essa empaticamente.
Predisporre un’empatia su qualcosa che non conosci, probabile sia solo autosuggestione ma diciamo è come entrare nell’altro con la tua testa e la sua forma.
Poi c’è l’imprevedibilità, la impossibilità a prevedere gli eventi contrapposta alla presunzione di poterli in parte indovinare. Quando vince la seconda sono portato a credere in un futuro prossimo così come lo avevo idealizzato. Può durare parecchi minuti. Questo aspetto è inebriante e magico e non sempre riconducibile allo scatto, anzi, spesso si manifesta quando il lavoro è finito e bisogna trovarlo dentro i rulli. C’è un ordine segreto in divenire, è come se le fotografie tra loro si conoscano.
In termini pratici nessuna magia si vede Giovanni che va incontro alle persone e le fotografa. Non mi riesce nascondermi, sono troppo grande, quello che mi riesce meglio è farmi vedere benissimo.
Perché fai fotografia?
Ho iniziato a pensare alla parola destino e al suo significato solo dopo essermi soffermato su alcune coincidenze che, senza spazio, senza specifiche correlazione tra gli eventi mi hanno tolto una vita restituendomene un’altra. Alla nuova appartiene la fotografia. La nuova vita ha significato un differente modo di porsi, forse più fatalista, è la paura di star bene, perché quando tutto volge per il meglio ho il terrore che “qualcosa” possa tornare e togliertelo…dico: vado in giro con le scarpe slacciate così il “diavolo” non si accanirà più.
Poi subentra la paura di portarselo dentro, il diavolo.
Lui non si accanisce su di te se…”se l’anima tua è pura…” (Costantinos Kavafis-Itaca), sarà vero?
Le coincidenze mi hanno portato alla fotografia e tramite questa ho visto (almeno nei primi anni-2003-2004) il diavolo accanirsi su molte persone. Non so quanto sia naturale esorcizzarlo o peggio ancora avvicinarlo.
Probabile che i primi lavori siano serviti a capire (qualora ce ne fosse bisogno) che il male non aveva visitato solo me, ma costantemente alimenta le sofferenze di tanti esseri umani.
Inconsciamente li ho usati! Ho esorcizzato la mia paura catturando le prove che il diavolo aveva fatto visita anche ad altri, ho temporaneamente resettato il mio sentirmi sfortunato, cercando e trovando anche il dolore degli altri.
Poco importa se il fatto di essere stato in Africa sia stata una fatalità, poco importa che avessi più volte detto no! Non me la sento, sto ancora male, quello che importa è solo quello che fai e non quello che pensi di essere o peggio ancora quello che gli altri pensano tu sia, soprattutto se queste ultime due vengono coltivate negli anni, snaturandoti.
In molte mie fotografie, dentro e fuori, c’è un’anima pura con il diavolo accanto, anche oggi.
Perché faccio fotografia! La mia testa è diventata più piccola. Il mondo è sempre stato così grande, le parole potrebbero non bastarmi più, e non da meno la voce potrebbe finire. Le fotografie parlano sempre, non smettono mai, per quanto mi riguarda parlano attraversando l’anima. Fotografo per una emozione inspiegabile. Parlo dello sviluppo dei sensi, del sentirsi importante nel rendere importanti, nel percepire il tempo attraverso frazioni di secondo e scegliere (prima) quello giusto per loro. È una droga spirituale.
Il tuo lavoro posa lo sguardo su realtà di vita che spesso si perdono tra il rumore e l’indifferenza di una grande città come Asunción: quali sono i contrasti che maggiormente ti hanno colpito?
Non ci sono state cose che mi hanno colpito, piuttosto ho vissuto esperienze che mi hanno emozionato, già provate, ma è sempre diverso, appagante.
La stretta di mano tra due bambini di nemmeno 10 anni, forte e vera come quella di due uomini, la complicità nascosta nei loro sguardi, fieri come quelli di chi deve combattere da lì a poco. Ho visto il risultato di una vita fatta di sacrifici e sofferenze, la portano addosso con la consapevolezza un po’ forzata di chi non poteva permettersi altre soluzioni.
In fondo è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima. Vedere i loro è come attraversarla, vederli piangere è come quando un castello di sabbia si sgretola e sotto appare una piccola conchiglia.
Asunción è una culla come tante altre, per alcuni è confortevole e sicura per altri è come abbandonata nella strada. Ci passi vicino, la vedi, senti che c’è qualcosa, ma fermarsi significherebbe ascoltare la propria voce, parlo di quella più vera, più nobile che direbbe, aiutalo, non è giusto, almeno un sorriso. Meglio non dire e fare nulla, potrebbe accadere qualcosa di così bello che mi ricordo di essere vivo e poi? Che faccio? Da solo non posso salvare il mondo. Io in questa città ho fotografato l’amore e l’indifferenza, adesso che ci penso bene, la cosa che più mi ha colpito è che entrambe queste cose sono figlie della stessa madre.
Fotografia: un mezzo eccellente per svegliare le coscienze, per superare i confini ed i pregiudizi.
Che tipo di impatto credi che il tuo modo di “fare reportage” abbia sulle coscienze del nostro Paese? Ed in particolare il reportage sui bambini di strada?
Domanda difficile, non saprei. La paura è che tante immagini dure a cui ormai siamo abituati allontanino invece che avvicinare. Non ho cercato la foto cruenta, dura ad ogni costo, in fondo ero di fronte alla mia giovinezza.
Mi auguro che queste immagini abbiano la forza di una poesia
Come disse Ungaretti: la poesia è poesia quando porta con se un segreto.
Tanti segreti uno vicino all’altro possono svegliare le coscienze di molte persone, far sì che queste inizino a porsi domande.
Mi piace pensare al mio lavoro come ad un contenitore di domande.
Ogni fotografia una domanda da porsi…è il modo migliore per stimolare la curiosità e rompere quella barriera chiamata indifferenza.
Grazie.
ATTRAVERSO IL LIBRO CONTRIBUIRAI A SOSTENERE LE ATTIVITÀ A FAVORE DEI BAMBINI DI STRADA NEL CENTRO
HIJOS DEL SOL.
IL CENTRO, DALLO SPAGNOLO “FIGLI DEL SOLE”, È STATO CREATO IN UNA ZONA DI ASUNCIÓN PARTICOLARMENTE A RISCHIO, TANTO CHE IL MINISTERO DELL’INFANZIA E DELL’ADOLESCENZA PARAGUAIANO LA RICONOSCE COME ZONA ROJA, ZONA ROSSA. I BAMBINI SONO QUI COLPITI DA GRAVI PROBLEMATICHE DERIVANTI DALLA VITA IN STRADA QUALI L’ABBANDONO, LO SFRUTTAMENTO, L’ASSUNZIONE DI ALCOOL E DI SOSTANZE STUPEFACENTI, LA PROSTITUZIONE INFANTILE.
a cura di Barbara Drago