Di Michele Lisco
GIUSEPPE: DA PRIGIONIERO A COMANDANTE
Prendiamo la storia di Giuseppe, il figlio di Giacobbe. Undicesimo figlio della tribù, era il prediletto di Giacobbe che lo amava per la sua purezza di cuore e gli fece fare una vita dedita agli studi. I fratelli maggiori invece lo invidiavano, poiché il padre voleva fosse lui il successore fra tutti i figli e per questo lo catturarono e lo vendettero come schiavo, facendo poi credere a Giacobbe che fosse stato ucciso dai lupi. Il disegno di Dio per Giuseppe fu decisamente complesso: odiato dai fratelli, venduto come schiavo e portato in Egitto, vi rimase per vari anni finché venne preso a servizio dal capo delle guardie del Faraone, Putifarre. Riuscì a guadagnarsi la fiducia del padrone, ma la moglie di questi si infatuò di lui e quando Giuseppe, rimanendo fedele ai propri valori, la rifiutò non volendo tradire Putifarre, fu da lei accusato di violenza e messo in prigione. Fortunatamente il Faraone, tormentato da un incubo ricorrente, venne a conoscenza della capacità di Giuseppe di interpretare i sogni e lo convocò. Secondo Giuseppe, i sogni del Faraone riguardavano una prossima carestia e ciò convinse il Faraone stesso a prendere seri provvedimenti. Riponendo tutta la sua fiducia in Giuseppe e nei suoi talenti, volle nominarlo viceré di tutto l’Egitto e durante la carestia, che effettivamente sopraggiunse, Giuseppe riuscì a salvare l’Egitto dalla fame.
Proprio in quel periodo i suoi fratelli vennero a chiedere aiuto al Faraone per la mancanza di cibo e Giuseppe finse di non conoscerli e li fece arrestare. Disse loro che, se non avessero fatto arrivare anche l’altro fratello rimasto a casa, non gli avrebbe permesso di ripartire. Così, tenendo in ostaggio uno di loro, li mandò a prendere Beniamino, perché in cuor suo voleva vederlo. Una volta che i fratelli furono ritornati in Egitto con Beniamino, Giuseppe permise loro di andarsene, ma con una falsa accusa tentò di arrestare Beniamino stesso. Voleva difatti vedere se gli altri fratelli lo avrebbero aiutato, oppure se l’avrebbero abbandonato come avevano fatto con lui tanti anni prima. A questo punto Giuda chiese di potersi sacrificare al posto di Beniamino, per non dare altro dolore al padre che già anni or sono aveva perso un figlio. In tal modo Giuseppe comprese che il cuore dei fratelli era cambiato, si rivelò a loro e li abbracciò con affetto.
Evidentemente, tali vicissitudini dovevano permettere a tutti loro di arrivare e stabilirsi in Egitto, per portare avanti il piano di Dio. Alla morte di Giacobbe, i fratelli temettero che Giuseppe cercasse di vendicarsi per essere stato venduto come schiavo quando era ancora un ragazzo. Leggiamo in Genesi 50:
Giuseppe disse loro: “non temete; sono io forse al posto di Dio? Voi avete macchinato del male contro di me, ma Dio ha voluto farlo servire al bene, per compiere quello che oggi avviene: conservare in vita un popolo numeroso”. (Gen. 50:19-20)
Notiamo le parole di Giuseppe: “Voi avete macchinato del male contro di me, ma Dio ha voluto farlo servire al bene”. Le situazioni dolorose sono poste in essere attraverso l’azione di Satana per causarci sofferenza, ma Dio le utilizza per perseguire comunque un fine positivo. Le prove, perfino le più terribili, non sono che strumenti nelle mani di Dio per portare il bene ai Suoi figli.
Giuseppe comprende e realizza dentro di sé un’immensa verità: prendere la nostra croce può diventare la più grande missione che possiamo avere. Se Giuseppe avesse ceduto alle lusinghe della moglie del padrone, la sua vita avrebbe preso una direzione completamente diversa: si sarebbe macchiato d’infamia agli occhi di Dio e forse avrebbe perso la protezione del cielo che, di lì a poco, gli avrebbe concesso la straordinaria possibilità di comparire dinnanzi al Faraone a profetare manifestando tutto il talento e la fede di cui era depositario, cominciando così la sua ascesa verso un potere, quello del comando, che ha permesso agli Israeliti di insediarsi in Egitto secondo il disegno di Adonay.
Questo esempio ci fa capire quanto sia importante maturare il discernimento e mantenere un legame saldo con Dio, per non cedere alle prove e alle tentazioni che la vita ci pone dinnanzi e non cadere nel circolo vizioso del karma, allontanandoci da Dio e dalla nostra missione.
GIOBBE: LE PROVE DI UN “GIUSTO”
La storia è ambientata nel “paese di Uz”, che dovrebbe collocarsi nei dintorni del territorio di Edom, cioè nella parte meridionale dell’attuale Giordania. All’inizio del libro Giobbe è molto ricco: possiede tanto bestiame, molti servi ed ha anche una famiglia numerosa. Satana riceve da Dio il permesso di provare la sua fede, così in un primo momento gli toglie tutti i beni e poi lo priva dei suoi figli. In seguito, non essendo ancora riuscito ad incrinare la fede di Giobbe, Satana chiede e ottiene da Dio l’autorizzazione a colpire anche il suo corpo.
Degli amici vengono a consolarlo, ma le loro argomentazioni circa le motivazioni delle prove che Giobbe sta affrontando aggravano le sue sofferenze, tanto che egli li definisce “consolatori molesti” (Giobbe 16:2). Inizia così una discussione tra Giobbe e i suoi tre amici, che si basano sull’idea che la sofferenza sia sempre e necessariamente conseguenza del peccato. Giobbe non afferma mai di essere un uomo perfetto, ma rifiuta con decisione il loro giudizio e non riesce a capire l’apparente durezza di Dio nei suoi confronti. Eliu, un quarto amico fino ad allora rimasto silenzioso, propone di dibattere la questione partendo da una base differente. Invece di considerare le sofferenze degli uomini unicamente come castigo del peccato, Eliu ritiene che esse fortifichino e purifichino l’uomo. Non sono quindi espressione della collera di un Dio implacabile, ma una correzione inflitta amorevolmente. La tesi di Eliu fa di lui un messaggero del Signore: egli prepara l’intervento divino ed apporta un argomento che Giobbe può prendere in considerazione e addirittura accettare (capitoli 32-37).
Infine Dio prende la parola e mostra a Giobbe che la conoscenza umana è troppo limitata per spiegare in maniera soddisfacente il mistero dei propositi divini. Giobbe e i suoi amici avevano dimenticato che Dio è il Vasaio e noi non siamo altro che creta nelle Sue mani, per questo Dio li riprende. Giobbe riconosce subito il proprio peccato umiliandosi davanti al Signore (38:1-42:6). La fede di Giobbe trionfa quindi su tutte le prove ed egli finisce col recuperare l’antica prosperità ed anche di più.
Tutti i personaggi umani del dramma parlano senza sapere nulla delle insinuazioni di Satana contro la fede di Giobbe, di cui si narra nel prologo, e del fatto che Dio gli avesse dato il permesso di provare coi fatti le sue accuse. Conoscendo la premessa, le sofferenze di Giobbe appaiono non come il risultato di una condanna divina contro di lui, in virtù della legge del karma (come gli amici avevano sostenuto), bensì come prova della fiducia di Dio in lui, che durante tutta la narrazione non vacillerà mai, anzi continuerà a chiamare Dio il suo Redentore.
Ora approfondiamo la storia di Giobbe attraverso le parole di Giorgio che, dopo la sanguinazione del 2 settembre 2008, racconta il messaggio che il cielo ci ha inviato, incentrato proprio sulla storia di Giobbe.
Ho scritto il 2 settembre 2008:
“Questa sera prima di darvi il messaggio devo raccontarvi la storia di un personaggio di cui parla la Bibbia. Quando non state bene, leggete questo libro, è la vostra storia, è la nostra storia, è la mia storia. Vi racconto questo per prepararvi a ciò che vi devo dire, per prepararvi al messaggio che i fratelli della luce cristica, che hanno visitato la mia casa assieme a Gesù, mi hanno pregato di comunicarvi…” e arrivando al messaggio centrale, afferma:
“Insomma, per sintetizzare la storia… Dio appare a Giobbe in una tempesta e Giobbe si rivolge a lui dicendo: “Signore io ti ho amato, servito, ubbidito, accusato i malfattori, i delinquenti, aiutato i poveri… perché tu mi hai tolto tutto e mi stai castigando in questo modo? Io sono giusto, non posso dire che ho sbagliato se non ho sbagliato… però posso dire: “sia fatta la tua volontà. Ti prego di togliermi la vita fisica in modo che, quando sarò in spirito e sarò al tuo cospetto per il giudizio io possa difendermi. Non voglio nessun avvocato, mi voglio difendere dalle tue accuse, difendere le cause per cui io ho combattuto… comunque a prescindere da questo io non ti rinnegherò mai e tu sarai sempre il mio Dio”. Il signore gli risponde: “Chi sei tu che ti rivolgi così a me? Io ho creato il lupo e l’agnello. Che dovrebbe dire l’agnello che è mangiato dal lupo? Che è ingiusto? Anche il lupo si deve nutrire; e l’erba che viene mangiata dall’agnello che deve dire? Che è ingiusto? Io so perché faccio le cose, creo i cieli e la terra, muovo le stelle. Quindi non replicare al tuo Dio. Però siccome sei stato giusto, onesto, trasparente e non sei stato ipocrita e non mi hai rinnegato, io di tutto quello che ti ho tolto, te ne restituisco il doppio”. E quindi il signore gli ridà tutti i suoi beni raddoppiati, altri dieci figli, e lo fa vivere 140 anni. Ecco cari fratelli, questo è Dio. Un Dio tiranno? Un Dio incomprensibile? Questo è il nostro Dio, si chiama Adonay ed è il Dio che io servo. Ecco noi non siamo Giobbe, però la nostra storia è similare.
Il messaggio che voglio dare stasera è che la storia di Giobbe è una storia che voglio fare mia perché vi si capisce la vera natura di Dio. Dio ci manda le prove perché ci vuole fedeli, perché ci vuole forti e umili al suo cospetto. Forti nel dire sempre la verità, nel mantenerci trasparenti, sinceri, nel difendere le cause per le quali si sta dando la propria vita, cause che sono quelle di suo figlio, il Cristo. Cause per l’umanità, per portarla verso un mondo migliore regolato dalle leggi di armonia, amore, giustizia, fratellanza… Dio ci vuole così e può metterci alla prova come ha fatto con Giobbe che ha ridotto a pezzi… per poi ridargli il doppio di quanto possedeva prima. Quando poi Satana torna davanti a Dio questi gli dice: “Allora Shatan, non ci sei riuscito a sconfiggere Giobbe?” “Effettivamente”, ammette Satana, “questo tuo figlio è un figlio retto, non lo tenterò più, andrò da altri”. Quindi noi dobbiamo essere come Giobbe. Ora io vi devo confessare che mi sento bene. E quello che vi devo dire sta sera è questo:
“Dobbiamo resistere. Resistere perché quello che il cielo mi ha promesso sarà mantenuto. Ecco io sono un po’ in questo momento, cercate di capire la simbologia, mi sento un po’ come Giobbe. Non ho da offrirvi niente. Però vi posso offrire l’unica cosa che mi è rimasta e per la quale sono disposto a morire: la verità. Una sola verità io ho: quella della seconda venuta di Gesù Cristo sulla Terra. Io sto puntando tutto su questo. Su questa promessa, e quindi voi dovete vivere con questa certezza; che io sia presente o non sia presente. Voi dovete avere la certezza che Lui è già sulla Terra. Gesù mi ha detto e me l’ha detto personalmente: “Io sono sulla Terra. Io sono ritornato”. Annuncia ai tuoi fratelli, che sono i miei fratelli e i miei amici che presto sarò in mezzo a voi. Non vi posso dire il giorno e l’ora, perché nessuno lo sa, solo il Padre Adonay, ma molto presto, prima di quanto voi possiate immaginare. Però devi dire loro che saranno provati come Giobbe”.
E quindi noi non siamo Giobbe, ma possiamo superare qualsiasi prova se siamo uniti di fronte alle future prove del mondo. i mezzi non ci mancheranno per annunciare la sua venuta, però le prove saranno dure e forti.
Non a caso mi hanno detto: “Leggi il libro di Giobbe”.
Ieri mi hanno detto: “Accendi la radio e ascolta” e c’era un prete che stava parlando e ha detto: “Ora vi leggo il libro di Giobbe”; mi hanno detto: “rileggi questa storia perché domani ne dobbiamo parlare”. Io sto per ritornare”, dice Gesù. Mi ha anche detto che vi verrà a trovare a casa, uno a uno, a questo vi dovete preparare… non è che mi avviserà, lo farà direttamente, perché io sono solo un suo umile servo che si limita ad annunciare la Sua venuta. Lui vi visiterà, lo farà in una forma in cui voi non vi spaventate, nel sogno, intendo un’esperienza astrale o fisica. Lui mi ha detto che prima di manifestarsi al mondo visiterà i Suoi fratelli e amici personalmente; io non so se ci sarò, ma se ci sarò gioirò assieme a tutti voi di questa visita”.
GIORGIO BONGIOVANNI
STIGMATIZZATO
Sant’Elpidio a Mare (Italia)
2 settembre 2008. Ore 20:30
È importante notare che Giobbe è proprio l’esempio attraverso il quale possiamo renderci conto se stiamo diventando arroganti o se siamo nella strada dell’umiltà.
Analizziamo ora la storia di alcuni profeti biblici: Mosè, Elia e Giona, per vedere quanto la vita degli uomini inviati da Dio possa essere piena di prove e tentazioni fino al punto di rischiare di perdere la propria missione e di infrangere la promessa di amore e servizio fatta al padre Adonay.
MOSÈ IL LIBERATORE DEL POPOLO D’ISRAELE
Mosè è stato uno dei più grandi profeti, di cui la Bibbia narra che “non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia”. Sappiamo che Mosè fu il condottiero che Dio scelse per liberare il popolo ebreo dalla schiavitù degli Egizi, 400 anni dopo che la discendenza di Abramo si era trasferita in Egitto. Dio lo scelse proprio per rinnovare il patto che molti anni prima aveva stabilito con Abramo. Mosè si trovò alle prese con un popolo ribelle, lamentoso e sempre pronto ad incolpare Dio e i Suoi profeti alle prime difficoltà. Questo difficile rapporto fra Mosè e il suo popolo portò il profeta ad attraversare momenti di grande sconforto, rabbia e sofferenza, che ne misero a dura prova la fede e l’ubbidienza al Signore. Dio stesso comunicò a Mosè che, per via del suo comportamento, non avrebbe potuto finire i suoi giorni nella Terra Promessa, ma ne sarebbe dovuto rimanere fuori avendo tradito la fiducia che aveva riposto in lui. Alla fine, quindi, Mosè cadde nella tentazione di disubbidire a Dio, che lo perdonò comunque e lo prese con sé sul Monte Nebo.
Vi sono alcuni episodi che mettono in luce come le prove e le tentazioni cui fu sottoposto Mosè nel suo rapporto col popolo siano state tremendamente dure e, al tempo stesso, quanto il Signore sia stato severo di fronte al tradimento e all’infedeltà da parte degli israeliti durante tutto l’esodo verso la Terra Promessa.
PRIMO EPISODIO (Nm 12:1-16): La ribellione del fratello Aronne e della sorella Miriam, che avevano diviso con Mosè gioie e tristezze recate da tanti anni di peregrinazione nell’eremo.
“Maria e Aronne parlarono contro Mosè a causa della donna etiope che aveva sposata; infatti, aveva sposato una etiope. Dissero: «Il Signore ha forse parlato soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?». Il Signore udì. Il Signore disse subito a Mosè, ad Aronne e a Maria: «Uscite tutti e tre e andate alla tenda del convegno». Uscirono tutti e tre. Il Signore allora scese in una colonna di nube, si fermò all’ingresso della tenda e chiamò Aronne e Maria. I due si fecero avanti. Il Signore disse: «Ascoltate le mie parole! Perché non avete temuto
di parlare contro il mio servo Mosè?». L’ira del Signore si accese contro di loro ed Egli se ne andò; la nuvola si ritirò di sopra alla tenda ed ecco Maria era lebbrosa, bianca come neve; Aronne guardò Maria ed ecco era lebbrosa. Aronne disse a Mosè: «Signor mio, non addossarci la pena del peccato che abbiamo stoltamente commesso». Mosè gridò al Signore: «Guariscila, Dio!». Il Signore rispose a Mosè: «Se suo padre le avesse sputato in viso, non ne porterebbe essa vergogna per sette giorni? Stia dunque isolata fuori dell’accampamento sette giorni; poi vi sarà di nuovo ammessa».
SECONDO EPISODIO (Nm 14,1): Il popolo scredita gli esploratori che avevano seguito le indicazioni di Dio.
Screditarono presso gli Israeliti il paese che avevano esplorato, dicendo: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che vi abbiamo notata è gente di alta statura; vi abbiamo visto i giganti, figli di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ci sembrava di essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro». Allora tutta la comunità alzò la voce e diede in alte grida; il popolo pianse tutta quella notte. Tutti gli Israeliti mormoravano contro Mosè e contro Aronne e tutta la comunità disse loro: «Oh! fossimo morti nel paese d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci conduce in quel paese per cadere di spada? Le nostre mogli e i nostri bambini saranno preda. Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?». Si dissero l’un l’altro: «Diamoci un capo e torniamo in Egitto».
Allora Mosè e Aronne si prostrarono a terra dinanzi a tutta la comunità riunita degli Israeliti. Giosuè figlio di Nun e Caleb figlio di Iefunne, che erano fra coloro che avevano esplorato il paese, si stracciarono le vesti e parlarono così a tutta la comunità degli Israeliti: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese molto buono. Se il Signore ci è favorevole, ci introdurrà in quel paese e ce lo darà: è un paese dove scorre latte e miele. Soltanto, non vi ribellate al Signore e non abbiate paura del popolo del paese; è pane per noi e la loro difesa li ha abbandonati mentre il Signore è con noi; non ne abbiate paura». Allora tutta la comunità parlò di lapidarli; ma la Gloria del Signore apparve sulla tenda del convegno a tutti gli Israeliti. Il Signore disse a Mosè: «Fino a quando mi disprezzerà questo popolo? E fino a quando non avranno fede in me, dopo tutti i miracoli che ho fatti in mezzo a loro? Io lo colpirò con la peste e lo distruggerò, ma farò di te una nazione più grande e più potente di esso».
Mosè riesce quindi ad ottenere il perdono del Signore per la sua gente, ma Dio annuncia che non tutti avrebbero visto la Terra Promessa, a causa dell’infedeltà dimostrata dal popolo nonostante i continui interventi e prodigi compiuti a suo beneficio.
TERZO EPISODIO (Nm 16): La ribellione di Core, Dathan e Abiram spalleggiata da circa duecentocinquanta uomini.
In questo caso Mosè rimette l’affronto nelle mani del Signore: i ribelli vengono sterminati come pure i loro simpatizzanti, sicché ampi vuoti si creano tra il popolo… un racconto terribile che lascia trapelare le difficilissime condizioni in cui Mosè deve sempre agire.
«Presero altra gente e insorsero contro Mosè, con duecentocinquanta uomini tra gli Israeliti, capi della comunità, membri del consiglio, uomini stimati; radunatisi contro Mosè e contro Aronne, dissero loro: «Basta! Tutta la comunità, tutti sono santi e il Signore è in mezzo a loro; perché dunque vi innalzate sopra l’assemblea del Signore? … È forse poco per te l’averci fatti partire da un paese dove scorre latte e miele per farci morire nel deserto, perché tu voglia fare il nostro capo e dominare su di noi?»
Core convocò tutta la comunità presso Mosè e Aronne all’ingresso della tenda del convegno; la gloria del Signore apparve a tutta la comunità. Il Signore disse a Mosè e ad Aronne: «Allontanatevi da questa comunità e io li consumerò in un istante». Ma essi, prostratisi con la faccia a terra, dissero: «Dio, Dio degli spiriti di ogni essere vivente! Un uomo solo ha peccato e ti vorresti adirare contro tutta la comunità?». Il Signore disse a Mosè: «Parla alla comunità e ordinale: Ritiratevi dalle vicinanze della dimora di Core, Datan e Abiram».
Mosè si alzò e andò da Datan e da Abiram; gli anziani di Israele lo seguirono. Egli disse alla comunità: «Allontanatevi dalle tende di questi uomini empi e non toccate nulla di ciò che è loro, perché non periate a causa di tutti i loro peccati». Così quelli si ritirarono dal luogo dove stavano Core, Datan e Abiram. Datan e Abiram uscirono e si fermarono all’ingresso delle loro tende con le mogli, i figli e i bambini.
Mosè disse: «Da questo saprete che il Signore mi ha mandato per fare tutte queste opere e che io non ho agito di mia iniziativa. Se questa gente muore come muoiono tutti gli uomini, se la loro sorte è la sorte comune a tutti gli uomini, il Signore non mi ha mandato; ma se il Signore fa una cosa meravigliosa, se la terra spalanca la bocca e li ingoia con quanto appartiene loro e se essi scendono vivi agli inferi, allora saprete che questi uomini hanno disprezzato il Signore». Come egli ebbe finito di pronunciare tutte queste parole, il suolo si profondò sotto i loro piedi, la terra spalancò la bocca e li inghiottì: essi e le loro famiglie, con tutta la gente che apparteneva a Core e tutta la loro roba. Scesero vivi agli inferi essi e quanto loro apparteneva; la terra li ricoprì ed essi scomparvero dall’assemblea. Tutto Israele che era attorno ad essi fuggì alle loro grida; perché dicevano: «La terra non inghiottisca anche noi!». Un fuoco uscì dalla presenza del Signore e divorò i duecentocinquanta uomini, che offrivano l’incenso.
A causa di tali fardelli che deve portare per lunghi anni, Mosè cade nella tentazione di perdere la fiducia, la fede, la pazienza e l’umiltà verso Dio. Dopo l’ennesimo “mormorio” del popolo scontento e dopo aver notato l’ira divina in proposito, Mosè affronta Dio con queste parole: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia agli occhi tuoi, che tu m’abbia messo addosso il carico di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse dato io alla luce, che tu mi dica: Portalo sul tuo seno, come il balio porta il bimbo lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Donde avrei io carne da dare a tutto questo popolo? Poiché piagnucola dietro a me, dicendo: Dacci da mangiare un po’ di carne! Io non posso, da me solo, portare tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. E se mi vuoi trattare così, uccidimi, ti prego; uccidimi, se ho trovato grazia agli occhi tuoi e che io non veda la mia sventura» (Nm 11:11-15).
L’amara esplicitazione del profondo malessere spirituale di Mosè perviene solo al Signore. Si tratta di uno sfogo “privato”, sicché i ribelli israeliti nulla ne vengono a sapere. Il Signore chiude un occhio, passa sopra al “crollo” di fede e pazienza di Mosè, e promette che il popolo avrebbe mangiato carne per un mese intero, fino ad averne la nausea; così il grande Mosè, coadiuvato dai settanta anziani, continua a guidare Israele. A questo punto però giunge a Meriba, dove pecca insieme al fratello Aronne, compromettendo per sempre il suo ingresso nella Terra Promessa. Leggiamo questo epilogo (Nm 20:7-12):
“Il Signore disse a Mosè: «prendi il bastone; tu e tuo fratello Aronne convocate la comunità e parlate a quella roccia, in loro presenza, ed essa darà la sua acqua; tu farai sgorgare per loro acqua dalla roccia e darai da bere alla comunità e al suo bestiame». Mosè dunque prese il bastone che era davanti al Signore, come il Signore gli aveva comandato. Mosè ed Aronne convocarono l’assemblea di fronte alla roccia, e Mosè disse loro «Ora ascoltate o ribelli; faremo uscire per voi acqua da questa roccia?» e Mosè alzò la mano, percosse la roccia col suo bastone due volte, e ne uscì acqua in abbondanza; e la comunità e il suo bestiame bevvero. Poi il Signore disse a Mosè ed Aronne: «Siccome non avete avuto fiducia in me per dar gloria al mio santo nome agli occhi dei figli di Israele, voi non condurrete quest’assemblea nel paese che io le dò».
A Mosè è appena morta la sorella, il popolo per l’ennesima volta si lamenta, fisicamente è stanco e psicologicamente provato ed arrabbiato. Non si presenta quindi a Dio in maniera limpida, con cuore puro e ben disposto, poiché non è sereno interiormente. Mosè pecca d’ira, perché dimentica le disposizioni di Dio e fa di testa sua, non ubbidendo alla lettera alle disposizioni ricevute dal Signore: non parla alla roccia, ma la percuote quasi a volersi sfogare. Pecca anche di superbia assieme ad Aronne, lasciando pensare al popolo che possa essere grazie a loro che l’acqua fuoriesce dalla roccia. Fino a quel momento il Signore li aveva utilizzati come strumenti per compiere segni miracolosi, li aveva scelti fra tutti ma non per le loro capacità. Presi dal sentimento cupo che alberga nel loro cuore, Mosè ed Aronne si dimenticano di quanto Dio ha fatto per loro: essi non possono far sgorgare acqua dalla roccia, solo Dio può farlo. Quando il Signore ci fa la grazia di servirsi di noi, dobbiamo fare attenzione a non diventare superbi. Senza Dio e il Suo aiuto non sappiamo e non possiamo fare niente, infatti Dio fa uscire l’acqua dalla roccia non perché Mosè la percuote, ma perché lo aveva promesso.
Mosè pecca anche di disubbidienza, poiché il Signore aveva dato un ordine semplice: “parlate”. Non aveva detto di compiere chissà quale rito, ma semplicemente di parlare alla roccia. Invece, come spesso ci accade, a volte vogliamo rendere le cose più complicate di quello che sono credendo di dare loro più peso, ma facendo di testa nostra disubbidiamo stupidamente. Infine, la cosa più grave di tutte, Mosè non ha fede, non crede alle parole di Dio. Mosè lascia entrare il peccato e perde la fede, anche se solo per un attimo, e questo gli costa caro dato che non entrerà nella Terra Promessa. Dopo tutte le vicissitudini che ha passato, sente pronunciare questa “sentenza” divina: «Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!».
Il libro si conclude col racconto della successione di Giosuè e della morte del profeta dopo essere salito sul monte Nebo. Mosè aveva provveduto agli israeliti in tanti modi: aveva chiesto a Dio di aprire il Mar Rosso per permetter loro di sfuggire agli Egizi, aveva portato le Tavole della Legge, l’acqua, la manna. Non gli mancava niente ma nel momento del bisogno, invece di umiliarsi ancora davanti a Dio e chiedere il Suo aiuto, di domandarsi perché il Signore permettesse quella situazione e chiedersi se non fosse l’effetto risultante dai comportamenti del popolo, se la prende con Lui. Queste storie ci fanno capire che, a volte, il Signore permette che accadano certi fatti perché desidera che Gli chiediamo aiuto. Vuole vedere come reagiamo, se siamo grati e se rimaniamo umili… non è presunzione, è amore. Vuole dirci: “Io ci sono, voglio aiutarti. Se tu mi chiedi aiuto, in qualsiasi situazione, in qualsiasi momento, Io sono pronto e voglio darti una mano!”
Proprio perché è un Dio d’amore e non presuntuoso, il Signore a volte esaudisce i nostri desideri anche se non glielo chiediamo, poiché conosce i nostri cuori e sa di cosa abbiamo bisogno.
ELIA IL GRANDE PROFETA
Secondo quanto si legge nei libri dei Re, Elia fu un grande profeta, con notevoli doti taumaturgiche, infatti resuscitò il figlio della vedova di Sarepta che lo ospitava durante una carestia. Egli svolse la propria missione sotto il re Acab, nel Regno del Nord (Israele era ormai diviso in due regni) intorno all’850 a.C. e quando Acab fu tentato dalla moglie per l’idolatria blasfema, Elia dovette intervenire duramente.
Nel momento in cui la regina Gezabele sterminò tutti i profeti di Dio per instaurare il culto del solo Dio Baal, Elia restò fedele al Dio di Abramo, e sfidò e vinse i 450 profeti del Dio Baal sul monte Carmelo. Dopo che essi avevano pregato inutilmente il loro Dio per tutto il giorno, infatti, Elia dimostrò la potenza del Dio di Israele accendendo grazie alla preghiera una pira di legna verde e bagnata. A seguito di questa dimostrazione miracolosa, presso il torrente Kison egli scannò, con l’aiuto del popolo, tutti i 450 sacerdoti di Baal. Elia si sentì fiero di aver ristabilito la verità, ma fece infuriare Gezabele che promise di ucciderlo entro la giornata. Impaurito, egli fuggì nel deserto, dove un angelo andò in suo aiuto e lo invitò a salire sul monte Oreb, il monte dove Mosè parlò con Dio. Dopo 40 giorni di cammino, Elia vi salì e si rifugiò in una caverna. Proprio qui ebbe una crisi di fede talmente grave da volersi lasciar morire: “Basta Signore, prendi la mia vita, perché non sono migliore dei miei padri” (1Re 19,4).
Uno dei più grandi profeti di Dio stava per abbandonare la propria missione. Dopo la “guerra santa” contro la regina e i sacerdoti, il suo cuore era confuso: il sogno di trasformare il popolo e di ripristinarne la fede in Dio sembrava infranto. Il popolo non lo aveva seguito, il Re non lo voleva ascoltare, si ritrovava solo e perseguitato. A cosa era servita questa “guerra”? Aveva forse sbagliato tutto? O forse Dio lo aveva abbandonato? Tale disperazione gli permise di mettersi in discussione ritornando così all’origine, all’umiltà, che è l’unica strada per arrivare a Dio ed ascoltare veramente cosa Lui ci chiede. Nel mezzo di questo momento drammatico, Elia udì rumori ed intravide luci fuori dalla caverna. Pensò potesse non trattarsi di Dio, perché anche altri Dei potevano compiere simili fenomeni, quando sentì un mormorio nel silenzio, come «di un vento leggero» (1 Re 19,12) e qualcosa gli suggerì interiormente che in quel suono di soave leggerezza vi era la vera voce di Dio. Si alzò per incontrare il Signore: «Che fai qui, Elia?» gli disse la voce. Il profeta rispose, cercando di “giustificare” la propria disperazione: «Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita». Dio gli diede allora un’ulteriore prova della Sua grandezza attraverso un fuoco, un vento e un terremoto, affinché il profeta potesse comprendere che il Signore è più grande di tutti i dubbi che lui aveva nel cuore e che il disegno divino si sarebbe realizzato comunque; ecco perché disperarsi equivaleva a sopravvalutare se stesso e a sottovalutare l’onnipotenza di Dio.
Il Signore disse ad Elia che sarebbe dovuto andare ad “ungere” nuovi Re: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Hazaèl come re di Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsi, come re di Israele e ungerai Eliseo figlio di Safàt, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto. Se uno scamperà dalla spada di Hazaèl, lo ucciderà Ieu; se uno scamperà dalla spada di Ieu, lo ucciderà Eliseo. Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l’hanno baciato con la bocca» (1Re 19, 15). Superata questa prova, avendo rinnovato il voto di servire Dio, Elia continuò la sua missione e riuscì perfino a fare breccia nel cuore di Re Acab, ottenendone la conversione dopo averlo sorpreso in una macchinazione fraudolenta. Grazie a tale ravvedimento la distruzione della casa reale fu allontanata, tuttavia la ricaduta degli effetti delle trasgressioni del re e della moglie Gezabele sarebbe stata inevitabile, infatti Acab morì in battaglia. Gli succedette il figlio Acazia, che perseguitò nuovamente Elia perché gli disse di smettere di interrogare Baal-zebub, in quanto “Non c’è forse un Dio in Israele?” Elia superò anche queste persecuzioni facendo scendere “fuoco dal cielo”.
Infine, Elia chiamò a seguirlo e ad essere il suo successore Eliseo, il quale gli chiese di poter divenire come un figlio maggiore e di ricevere «due terzi del tuo spirito». Mentre dialogava con Eliseo, Elia ascese al cielo con «un carro di fuoco e cavalli di fuoco» (2Re 2, 11). Non conobbe dunque la morte fisica, così come già era accaduto al patriarca Enoch.
GIONA, IL PROFETA RIBELLE
Giona era un galileo, un profeta attraverso cui il Signore proclamò il giudizio a causa del peccato, prima in Israele (2Re 14.25-27) e poi a Ninive. Dio diede a Giona un compito: Lèvati, và a Ninive (Gn 1.2), ma Giona sfuggì per lungo tempo all’assunzione di questo incarico che riteneva troppo gravoso, sottraendosi così alla chiamata divina. Uno dei motivi per cui Giona fuggiva dal proprio destino è che non voleva predicare ad una popolazione non ebraica in quanto, se gli abitanti di Ninive si fossero ravveduti, sarebbe stato un disonore per gli ebrei, che non avevano ascoltato i richiami dei profeti. Giona non voleva rischiare che un popolo straniero apparisse migliore di Israele a causa della sua predicazione, quindi decise da solo di imbarcarsi su una nave, non confidando nella bontà del disegno di Dio. Durante il tragitto, però, l’imbarcazione venne investita da un temporale e rischiò di colare a picco per la violenza delle onde. Giona allora ritrovò improvvisamente il coraggio e svelò ai compagni di viaggio che la colpa dell’ira divina era sua, poiché aveva rifiutato di obbedire a Dio. Affinché la nave fosse salva, egli chiese di essere gettato in mare. I marinai rimasero colpiti da un simile coraggio e da tanta devozione, e si convertirono a questo Dio che addirittura inseguiva un figlio pur di ricondurlo a Sé. Giona fu gettato in mare, ma venne salvato da un “pesce” nel quale visse per tre giorni e tre notti. Durante la solitudine, egli ebbe modo di riflettere: formulò un’accorata preghiera e, con forza di spirito, decise di rinnovare il proprio voto di obbedienza al Dio d’Israele. A quel punto, dietro comando divino, la balena “vomitò” Giona sulla spiaggia.
Il profeta ottemperò dunque la sua missione andando a predicare ai niniviti che, contro ogni aspettativa, gli credettero, proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, così Dio decise di risparmiare la città. Ma ecco riemergere l’istinto ribelle di Giona: non contento del perdono divino, pretendeva che Ninive fosse punita. Si sedette davanti alla sue mura e chiese a Dio di farlo morire. Il Signore fece invece spuntare un ricino sopra la sua testa per apportargli ombra, ed egli se ne rallegrò ma, all’alba del giorno seguente, un verme rosicchiò la pianta che si disseccò, rattristando il profeta. Il sole e il vento caldo flagellarono allora Giona, che invocò nuovamente la morte. La sua disperazione è comprensibile data la situazione sociale e politica di quel tempo: Ninive era infatti un chiaro simbolo di oppressione per Israele, avendo distrutto e deportato la gente del Regno del Nord, eppure a Giona venne chiesto di invitare alla conversione proprio quella città. Dopo aver accettato a malincuore di farlo, Giona rifiutò la decisione divina di salvare Ninive, non si rassegnò ad accettare un Dio misericordioso, preferendone uno dal giudizio inesorabile, soprattutto contro un impero tanto odioso come quello Assiro. Al suo sfogo, che rasenta la bestemmia, Iddio rispose con la “parabola del ricino”, il cui significato è altrettanto chiaro:
“E il Signore disse: «Tu hai avuto compassione per la pianta per cui non hai faticato né hai fatto crescere, e che in una notte è cresciuta e in una notte è perita. E io non dovrei aver compassione di Ninive, la grande città, nella quale ci sono centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e una grande quantità di bestiame?» (Gn 4.10,11)
Il Dio d’Israele è anche Dio degli altri popoli e di tutto il creato. La sua cura non conosce limiti né geografici, né tanto meno etnici. Non è un caso che, in due sequenze parallele del libro, a rivolgersi a Dio siano personaggi non ebrei: prima i marinai diretti a Tarshish, poi gli abitanti di Ninive, tutti “Gentili”, cioè stranieri. L’ultimo ad imparare questa lezione fu proprio il profeta: non accettava che un popolo malvagio venisse risparmiato dalla distruzione, arrivando a chiedere di morire pur di non dover sopportare la presunta ingiustizia, mentre si addolorava nel constatare che una piccola pianta di ricino era appassita.
Con l’espressione “non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra”, Dio spiega a Giona che il popolo assiro avrebbe potuto cambiare se avesse ricevuto la conoscenza e i segni per farlo e, soprattutto, che lui si sarebbe dovuto fidare del suo Signore. Analogamente, noi tutti siamo pronti a preoccuparci per le piccole cose della vita, perché allora Dio non dovrebbe prodigarsi altrettanto dell’intera umanità, anche di quella peccatrice, affinché possa quanto meno avere la possibilità di salvarsi? Non sta a noi scegliere a chi rivolgerci, piuttosto dovremmo conoscere bene la logica del cielo, in modo da non cadere nell’errore di anteporre la nostra idea di giustizia a quella di Dio. Del resto, perfino Cristo chiese al padre di perdonare i “Gentili”, i Romani che lo misero sulla croce, perché “non sanno quello fanno”, ovvero non possedevano la conoscenza del corpo profetico e delle Leggi spirituali che, invece, il popolo ebraico aveva.
Nel prossimo approfondimento racconteremo l’ascesa e la caduta di tre personaggi chiave nella storia del popolo ebreo: Sansone, l’uomo dotato di una forza sovrumana; Re Davide, che riuscì ad unire in un unico regno tutto Israele; Re Salomone, conosciuto per la sua immensa saggezza.
Michele Lisco
17 Dicembre 2023
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