Santo Padre, il suo predecessore Giovanni Paolo II nel 1982 affermò che la deterrenza nucleare era «moralmente accettabile». Lei ha detto che anche il possesso di armi nucleari è da condannare. Hanno influito le tensioni e le minacce tra il presidente Trump e il nord coreano Kim Jong Un?
«Che cosa è cambiato? L’irrazionalità. Mi viene in mente l’enciclica Laudato si’, la custodia del creato. Dal tempo di Giovanni Paolo II sono passati tanti anni, e con il nucleare si è andati oltre. Oggi siamo al limite. Questo si può discutere, ma è la mia opinione convinta: siamo al limite della liceità di avere e di usare le armi nucleari. Perché oggi con l’arsenale nucleare così sofisticato si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità.
Questo è cambiato: la crescita degli armamenti, le armi più sofisticate, capaci di distruggere le persone senza toccare le strutture. Siamo al limite e io mi faccio questa domanda. Non è magistero pontificio, ma è la domanda che si fa un Papa: oggi è lecito mantenere questi arsenali nucleari così come stanno? O per salvare il creato e l’umanità non è forse necessario tornare indietro? Pensiamo a Hiroshima e Nagasaki, è accaduto settant’anni fa. E pensiamo a ciò che succede quando nell’energia atomica non si riesce ad avere tutto il controllo. Pensate all’incidente in Ucraina. Per questo, tornando alle armi che servono per vincere distruggendo, dico: siamo al limite della liceità».
La crisi dei profughi birmani Rohingya è stata al centro del viaggio e lei in Bangladesh li ha nominati. Le sarebbe piaciuto poter usare quella parola anche in Myanmar?
«Non era la prima volta che nominavo la parola Rohingya. L’ho fatto varie volte, in pubblico, in piazza di san Pietro. Già si sapeva quello che penso e quello che ho detto. La sua domanda è interessante perché mi porta a riflettere su come io cerco di comunicare. Per me la cosa più importante è che il messaggio arrivi. Per questo bisogna cercare di dire le cose passo dopo passo, e ascoltare le risposte. A me interessava che questo messaggio arrivasse. Se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, sarebbe stato come sbattere la porta in faccia ai miei interlocutori. Ma ho descritto la situazione, ho parlato dei diritti delle minoranze, per permettermi poi nei colloqui privati di andare oltre. Sono rimasto soddisfatto dei colloqui: è vero, non ho avuto il piacere di sbattere la porta in faccia pubblicamente, ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia. Fino all’incontro e alle parole di venerdì. È importante la preoccupazione che il messaggio arrivi: certe denunce, nei media, qualche volta dette con aggressività, chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva».
Ha incontrando i profughi…
«Non era programmato così, sapevo che avrei incontrato i Rohingya, non sapevo dove e come, ma questa era una condizione del viaggio. Dopo tanti contatti col governo e con la Caritas, il governo ha permesso ai Rohingya di viaggiare, è lui che li protegge e dà loro ospitalità, e quello che fa il Bangladesh per loro è grande, è un esempio di accoglienza. Un paese piccolo povero che ha ricevuto 700mila persone… Penso ai Paesi che chiudono le porte! Dobbiamo essere grati per l’esempio che ci hanno dato. Alla fine sono venuti, spaventati. Qualcuno ha detto loro che non potevano dirmi nulla. L’incontro interreligioso ha preparato il cuore di tutti noi, ed è arrivato il momento che venissero per salutare, in fila indiana, quello non mi è piaciuto. Ma poi subito volevano cacciarli via dalla scena e io lì mi sono arrabbiato e ho sgridato un po’: sono peccatore! Ho detto tante volte la parola: rispetto! E loro sono rimasti lì. Poi dopo averli ascoltati uno ad uno ho cominciato a sentire qualcosa dentro, non potevo lasciarli andare senza dire una parola. E ho cominciato a parlare, ho chiesto perdono. In quel momento io piangevo, cercavo che non si vedesse. Loro piangevano pure. Il messaggio è arrivato, non solo qui. Tutti hanno recepito».
Ha destato curiosità il suo incontro con il generale Hlaing che ha avuto un ruolo nella crisi del Rakhine: perché ha chiesto di vederla prima del previsto, era un tentativo di manipolarla? Con lui ha parlato dei Rohingya?
«Distinguerei fra due tipi di incontri, quelli in cui io sono andato a trovare la gente e quelli nei quali io ho ricevuto gente. Il generale ha chiesto, io l’ho ricevuto. Io mai chiudo la porta, parlando non si perde nulla, si guadagna sempre. Non ho negoziato la verità, ma ho fatto in modo che capisse perché una strada come quella dei brutti tempi passati oggi non è perseguibile. È stato un incontro civile. Ha chiesto di venire prima perché doveva partire per la Cina. Se posso spostare l’appuntamento lo faccio. Le sue intenzioni? Non so. A me interessava il dialogo e che fosse lui a venire da me. Il dialogo è più importante del sospetto che volesse dire: io qui comando, e vengo prima. Ho usato con lui le parole per arrivare al messaggio e quando ho visto che il messaggio veniva accettato ho osato dire tutto quello che volevo dire. Intelligenti pauca».
In Myanmar ha fatto molti incontri
«Non sarà facile andare avanti in uno sviluppo costruttivo, non sarà facile per chi volesse tornare indietro. Qualcuno ha detto che lo Stato di Rakhine (dove vivono i Rohingya, ndr) è molto ricco di pietre preziose e farebbe comodo se fosse senza gente. Non so se sia vero, è un’ipotesi che fanno. Ma credo siamo a un punto in cui non sarà facile andare avanti in modo positivo e non sarà facile tornare indietro. L’Onu ha detto che i Rohingya sono oggi la minoranza etnico-religiosa più perseguitata del mondo, è un punto che pesa per chi vuole tornare indietro. La speranza io non la perdo»
Parla spesso di migranti: voleva andare al campo profughi dei Rohingya?
«Mi sarebbe piaciuto, ma non è stato possibile, anche il tempo, per la distanza. E anche per altri fattori. Ma il campo profughi è venuto, come rappresentanza, da me».
Sulla crisi del Rakhine anche l’Isis e gli jihadisti hanno voluto inserirsi…
«C’erano gruppi terroristi che cercavano di approfittare dei Rohingya, che sono gente di pace. Sempre c’è un gruppo fondamentalista nelle religioni, anche noi cattolici ne abbiamo. I militari giustificano il loro intervento a motivo di questi gruppi. Io non ho scelto di parlare con questa gente, ma con le vittime, con il popolo che da una parte soffriva questa discriminazione e dall’altra era difeso dai terroristi. Il governo del Bangladesh ha fatto una campagna molto forte di tolleranza zero nei confronti del terrorismo. Questi che si sono arruolati all’Isis, benché siano Rohingya, sono un gruppetto fondamentalista piccolino. Questo fanno gli estremisti: giustificano l’intervento che ha distrutto buoni e cattivi».
Aung San Suu Kyi è stata criticata per non aver parlato dei Rohingya…
«Ho sentito, la criticavano per non essere andata nel Rakhine, poi è andata una mezza giornata. Ma nel Myanmar è difficile valutare una critica senza prima chiedersi: era possibile fare questo, come sarà possibile farlo? Il Myanmar è una nazione politicamente in crescita, la situazione politica è di transizione, e per questo le possibilità sono da valutare anche in questa ottica».
Sappiamo che vuole visitare l’India, perché non ha potuto andarci?
«Il primo programma era di andare India e Bangladesh (lo aveva annunciato un anno fa, ndr), ma poi le mediazioni sono state ritardate, il tempo premeva e ho scelto questi due paesi: il Bangladesh è rimasto ma abbiamo aggiunto il Myanmar. È stato provvidenziale, perché per visitare India ci vuole un viaggio solo, devi andare al sud, al centro al nord, per le diverse culture. Spero di poterlo fare nel 2018, se vivo»
Alcuni oppongono il dialogo interreligioso e l’evangelizzazione. Qual è la priorità, evangelizzare o dialogare per la pace? Evangelizzare significa suscitare conversioni, che provocano tensioni tra credenti
«Prima distinzione: evangelizzare non è fare proselitismo. La Chiesa cresce non per proselitismo ma per attrazione, cioè per testimonianza, come ha spiegato Benedetto XVI. Che cos’è l’evangelizzazione? Vivere il Vangelo e testimoniare come si vive il Vangelo: le beatitudini, il capitolo 25° di Matteo, testimoniare il Buon Samaritano, il perdono settanta volte sette. E in questa testimonianza, lo Spirito Santo lavora e ci sono delle conversioni. Ma noi non siamo molto entusiasti per avere subito le conversioni: se vengono, si parla, per cercare che sia la risposta a qualcosa che lo Spirito ha mosso nel cuore davanti alla testimonianza del cristiano. Un giovane alla GMG di Cracovia mi ha chiesto, cosa devo dire a un compagno di università che è ateo per convertirlo? Ho risposto: l’ultima cosa che devi fare è “dire” qualcosa. Tu vivi il tuo Vangelo e se lui ti domanda perché fai questo, allora spiegagli e lascia che lo Spirito santo lo attiri. Questa è la forza e la mitezza dello Spirito Santo nelle conversioni. Non è un convincere mentalmente con spiegazioni apologetiche, siamo testimoni del Vangelo. E la parola greca è “martire”, il martirio di tutti i giorni e anche quello del sangue, quando arriva. Che cosa è prioritario? Quando si vive con testimonianza e rispetto si fa la pace. La pace comincia a rompersi quando comincia il proselitismo»
Lei è stato in Corea, nelle Filippine, ora in Myanmar e Bangladesh, sembra un giro intorno alla Cina. È in preparazione un viaggio in Cina?
«Il viaggio in Cina non è in preparazione, state tranquilli. Ho già detto che mi piacerebbe visitare la Cina. Mi piacerebbe, non è cosa nascosta. Le trattative con la Cina sono di alto livello culturale, c’è una mostra dei musei vaticani in Cina. Poi c’è il dialogo politico soprattutto per la Chiesa cinese: si deve andare passo dopo passo con delicatezza, lentamente, con pazienza. Le porte del cuore sono aperte e credo che farà bene a tutti un viaggio in Cina, mi piacerebbe farlo!».
(Ca.Mar.)
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03 dicembre 2017
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