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NELLA TERRA AVVELENATA DI RUSSIA «QUI C’È UNA BOMBA ECOLOGICA»
Da Dzerzhinsk a Gorky, dove venne esiliato il dissidente Sacharov.
DZERZHINSK (Russia)— Tapparsi la bocca, turarsi il naso: questo, in sostanza, il consiglio gratuitamente offerto a chi da Nizhny Novgorod— l’ex Gorky— si metta in viaggio verso Dzerzhinsk, il gran polo dell’industria chimica dell’ex Unione Sovietica: un frenetico alveare urbano di oltre 260 mila abitanti, sulla riva del fiume Oka, che oggi produce grandi quantità di armi, esplosivi, missili per le lanciarazzi Katiusha e che in passato, durante la Prima guerra mondiale, aveva già ammorbato l’aria e avvelenato l’umanità con 300 mila tonnellate di sostanze tossiche come il sarin, l’iprite, il fosgene.
servizio fotografico di Luigi Baldelli) Ricordi Qui a fianco, una processione religiosa a Nizhny Novgorod, l’ex Gorky. In alto, a sinistra, un vecchio caccia russo in un parco giochi; a destra, la casa-museo dove soggiornò Andrej Sacharov.
Nessuna meraviglia che l’Istituto americano Blacksmith l’abbia inserita nella graduatoria delle dieci città più inquinate del mondo. Per una ripassata sui problemi dell’inquinamento in questa remota e spesso gelida vastità della Federazione russa, è stata più che utile una sosta nel reparto eco-biologico dell’Università Lobachevskij di Gorky dove scienziati e docenti lamentano che la durata media della vita è ancora molto bassa — 42 anni per gli uomini, 47 per le donne— mentre allo stesso tempo il tasso di mortalità infantile rimane alto e non accenna a diminuire la percentuale dei malati di cancro. Questa città, che alle origini si chiamava Rastjàpino, assunse il nome odierno solo nel 1929, in omaggio al fondatore dei servizi segreti sovietici, Feliks Dzerzhinskij, e da allora il suo ruolo è quello di polo petrolchimico segreto, cui hanno accesso solo gli addetti ai lavori, perennemente sottoposto alla vigilanza degli agenti del Kgb.
Durante la Guerra Fredda, Dzerzhinsk era una delle «capitali» sovietiche addette alla produzione di armi chimiche e dalle fabbriche che sfornavano gomma e plastica uscivano i primi Mig. Il terreno della regione su cui ora camminiamo tra filari di betulla esili e quasi senza foglie è difficile immaginarlo come una pianura ricca di boschi, d’animali e pascoli come viene dipinta nei quadri e raccontata nelle cronache antiche. L’industrializzazione forzata di Stalin ha completamente annichilito la natura e denudato il paesaggio. Dopo il crollo dell’Urss, la situazione ecologica è gradualmente migliorata grazie anche alla parziale, lenta chiusura degli stabilimenti dell’industria bellica. «Ma la ripresa non è stata facile— ricorda un anziano operaio in uno di quei caffè di periferia per pensionati dove sembra che il buio arrivi sempre prima che nelle case borghesi del centro — fino agli anni Ottanta l’aria era così incatramata che quasi non si riusciva a respirare. E ne paghiamo ancora le conseguenze. Quando avevo 20 anni, facevo tranquillamente il bagno nel fiume e nei laghi qui attorno: impresa quasi impossibile al giorno d’oggi per i nostri nipoti».
All’inquinamento dell’acqua e del terreno della regione, dove a tratti i piedi affondano ancora in una fanghiglia giallastra calda e, talvolta, perfino bollente, ha senza dubbio contribuito la costruzione «irrazionale» delle dighe, molte delle quali edificate anche là dove — a giudizio degli esperti — non era necessario, al solo scopo di realizzare assurdi progetti, concepiti nel clima di «gigantomania» che s’era diffuso in Russia dopo la Rivoluzione. Secondo gli ecologi, questa «proliferazione insensata» degli sbarramenti sul fiume ha avuto, tra le molte conseguenze negative, quella di aver interrotto la migrazione dei pesci da sud a nord: con grave danno per il patrimonio ittico di qualità. Un pesce pregiato come lo storione, fanno notare gli esperti, necessita di acqua corrente e non può quindi vivere e sopravvivere nei laghi artificiali che si son formati attorno alle dighe. Il tentativo di catturare esemplari della categoria lusso con sofisticati «ascensori» (cioè scatole di legno calate nel fiume per riportarli, vivi, in superficie) è miseramente fallito. Nessuno storione, ammettono i promotori dell’iniziativa, èmai caduto nella trappola. Comunque sia, i dati forniti dai cosiddetti enti competenti sono piuttosto allarmanti e tali da allontanare il sospetto che le notizie riguardanti l’estrema periferia settentrionale del pianeta non corrispondono alla realtà e siano frutto di fantasia, sbocciate sotto l’insegna di un sensazionalismo a buon mercato. Di vero c’è — parola degli esperti — che via via negli anni l’acqua potabile è stata contaminata da un volume sempre maggiore di sostanze tossiche con conseguenze negative per la salute degli esseri umani: soprattutto— precisano i medici— sul fegato e sul sistema nervoso.
Nella nostra escursione ci siamo avvicinati a un punto definito «pericoloso» dalle autorità locali, un deposito a cielo aperto in cui confluisce tutta la melma degli scarichi chimici cui hanno affibbiato il nome di Mar Bianco, evocando scenari di purezza e pulizia elvetica, mentre ti avvertono che la presenza del fenolo nell’aria è molto al di sopra della norma accettabile e che la concentrazione di diossine è 17 milioni di volte oltre il limite. Quanto basta, alla fine, per affermare che Dzerzhinsk «resterà una bomba ecologica ad orologeria per le generazioni future».
All’Università di Gorky, la persona che avrebbe dovuto farci da guida in «una delle dieci città più inquinate del mondo» si eclissò con una scusa banale, ridimensionando le incognite di una spedizione che solo qualche giorno prima sembrava molto complicata e rischiosa: «In realtà— si limitò a dire al telefono — non esiste alcun problema ecologico. Potrete constatarlo di persona. Dzerzhinsk è una città tranquilla, l’acqua è limpida, ci sguazzano i gamberi. Buona passeggiata, amici italiani». È forse esagerato definire la zona «un cimitero industriale» come è stato fatto di recente: ma tutte quelle ciminiere da cui non esce fumo o quelle rotaie arrugginite su cui da tempo non scorrono più i carrelli e quel silenzio che ti piomba addosso mentre cammini senza il suono delle sirene o il ronzio dei macchinari ti lasciano in preda a un disagio interno indefinibile, qualcosa di simile allo sgomento. Quasi tutte le fabbriche lavorano a ritmo ridotto: solo un paio funzionano a ritmo pieno, come lo stabilimento che provvede all’arricchimento degli ottani della benzina dove il salario degli operai è assai modesto. «Non c’è molto da scialare», dice un uomo che si è rassegnato a respirare l’aria malsana dell’industria chimica dopo aver fatto il pompiere nell’esercito.
Il processo per la purificazione dell’acqua, che è il principale obiettivo in questa parte della Federazione, è «molto lento e costoso», ammettono i funzionari e i tecnici impegnati a Gorky nella realizzazione del progetto. Tra di loro, la signora Galina Vasiljevna Shugarnova, che insiste nel sottolinearne l’urgenza: «Prima di tutto — afferma — occorre allestire un grande laboratorio dove analizzare i dati chimici e biologici sull’evoluzione del fenomeno, che è il punto dolente di questa regione e di tutta la Russia. Senza questo laboratorio non ci sarà soluzione».
Gorky, città-fortezza ad est di Mosca con un milione e 400 mila abitanti è diventata comunque il punto di riferimento, storico e geografico, di questo colossale disastro ecologico. Nel suo Cremlino sono esposti gli strumenti della potenza bellica di Mosca negli anni tra il ’41 e il ’45, i caccia La-7 su cui i bambini si stanno ora arrampicando per giocare alla guerra aerea, i camioncini con selve di katiuscia piazzate nel retro, cannoni da 85 mme, ultimo, il T34, il più famoso carro armato sovietico che ebbe pure un ruolo non secondario nel Vietnam.
Ma il richiamo di Gorky non si esaurisce nei ricordi del conflitto asiatico, anche se l’intervento sovietico, per contenere l’espansione dell’integralismo islamico, non può essere ignorato: un’altra vicenda, impossibile da scordare, mi ha trascinato a forza in un appartamento di quattro stanze al piano terra — squallide e tristi con un odore di muffa antica— dove il dr. Andrej Sacharov, condannato dalle autorità sovietiche per una serie di articoli (sui devastanti effetti della bomba atomica) che non aveva ottenuto l’approvazione del regime, trascorse sette anni di «esilio».
In un armadietto sono custoditi i telegrammi e le buste delle lettere ricevuti durante la prigionia, più qualche sbiadita foto di famiglia. Gli agenti del Kgb lo controllavano dalle finestre dell’edificio di fronte rendendo difficili anche le più normali e pudiche effusioni domestiche: per cui lui e la moglie comunicavano scrivendosi delle letterine, onde evitare che le loro emozioni, captate dalle molte «pulci» installate in casa dalla polizia, diventassero di dominio pubblico e forse oggetto di meschino sarcasmo e divertimento. Laureato a 21 anni, il giovane scienziato si dedica pienamente alla ricerca teorica insieme ad altri professori suoi coetanei trincerandosi in una località circondata da tre rotoli di filo spinato: ed è in questo isolamento che nasce l’atomica. Da allora rimarrà lontano dagli esperimenti segreti ancora in corso, quando è ormai chiaro che la bomba — quattro volte più potente di quella sganciata a Hiroshima — altro non può essere che strumento di distruzione e di morte. Risoluzione che assicurerà a Sacharov, nel ’75, il conferimento del premio Nobel per la pace.
C’è anche, tra i messaggi scritti di suo pugno, copia di un telegramma inviato ad Andropov in cui lo prega di «farla finita con le continue persecuzioni». Al Cremlino temevano le imprecazioni e le sue aspre critiche alla politica del governo come quando definì l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa «un attacco illegale contro un Paese straniero». Si deve all’insistenza della moglie se durante l’esilio riuscì a scrivere (pare con riluttanza) le sue memorie e i suoi saggi. Ma le autorità fecero di tutto per limitare i suoi contatti con l’esterno (questo, perlomeno, è quanto si evince da varie testimonianze) e per assicurare che il suo isolamento fosse totale.
Solo pochi giorni prima dell’uscita dal carcere venne esaudita la sua richiesta per un telefono, un apparecchio bianco che ora sta lì muto, sopra un tavolo. L’ultimo messaggio — si racconta — sarebbe stato quello di Gorbaciov che gli ha comunicato una bella notizia: «Domani— gli ha detto — il tuo esilio è finito».
CORRIERE DELLA SERA  6 GIUGNO 2010