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CIAD, IL MARE D’AFRICA CHE TRA VENT’ANNI RISCHIA DI SCOMPARIRE
Una volta gigantesco, il lago è ormai profondo appena tre metri.
Anche ora che ha perso in cinquant’anni il novanta per cento della sua superficie, anche se lo chiamano lago, il Ciad è un mare, un errore della natura che ha colmato di acqua dolce questa enorme voragine nel cuore dell’Africa e l’ha imprigionata fra pareti di deserti incombenti come un lento destino e fertili savane dagli orizzonti azzurrognoli. A prestar fede ai geologi e alle leggende che ne hanno preceduto di secoli i vaticini, l’Africa un giorno si spaccherà in due all’altezza di questa lunghissima cicatrice che corre tra il Sahara e le foreste, luoghi grandiosi e subdoli dove dalla decomposizione delle foglie sale il profumo della morte. L’Africa è un tuffo non nella preistoria, ma nell’eternità, tutto qui è possibile. Ventimila anni prima della nostra era non era forse il lago Ciad già scomparso? Per poi riapparire come per un sortilegio. Quando il continente si spezzerà, allora si realizzerà il suo sogno, essere il mare. Se ci sarà ancora. Perché nel 1960 la superficie di questa distesa di acqua dolce misurava 25 mila chilometri quadrati: oggi si è ridotta ad appena 2.500 chilometri quadrati. Secondo uno studio dell’Ente spaziale americano a questo ritmo tra venti anni non esisterà più.
Ancora oggi è bello da ferirti gli occhi, un dio, visto che dà la vita a trenta milioni di persone che si affollano sulle rive, separati da frontiere più che mai senza senso davanti alla lotta per sopravvivere. È un dio placido, senza malumori, nulla che ricordi le burrasche degli astiosi laghi dell’Africa australe.
Le acque ormai sono così basse, non più di tre metri, che è diventato perfino difficile pescare. La navigazione è vietata da tempo. Ma anche qui i pescatori sono filosofi come in tutto il mondo; gente che vive senza fare rumore, come se temesse di far male al dio, malato e fragile come è. Uomini e bimbi sparuti, strozzati dal bisogno, continuano a lavorare attorno alle loro canoe sempre più inutili, ne ricuciono le slabbrature con stoppie e argilla. Dove le hanno tirate a secco una lunga macchia scura ricorda che lì, solo poco tempo fa, c’era ancora l’acqua. Acque stanchissime, quasi impaludate, che avanzano senza un tremito, come di un canale morto. Ogni tanto da qualche imbarcazione che arriva a riva vengono gettati strani pesci di un verde splendido, dalle schiumose branchie di corallo, che lasciano nella polvere le tracce della loro agonia.
«Quando ero piccolo gettavo recipienti nel lago e li ritiravo pieni di pesci - racconta Adam Seid che è capo del villaggio di Kinaserom, come se rievocasse paradisi antichi -. Alcune specie come il pesce siluro sono scomparse, e non vediamo più da tempo sulle rive molte varietà di uccelli». Si spaventerebbe Seid se sapesse che le specie scomparse sono addirittura 150; e che la pesca che nel 1960 rendeva 80 mila tonnellate l’anno, nel 2000 era striminzita a 50 mila; oggi chissà.
Attorno al lago l’aria è fresca, la brezza porta odori di erbe giovani: perché dove l’acqua si è ritirata si stende una pianura umida dove i contadini hanno preso il posto dei pescatori e mettono a cultura le nuove terre, avidamente. Questa è una delle aree del globo che conosce i più alti tassi di densità demografica. La terra non può, non deve riposare.
Ma ora tutto in realtà è in pericolo: la pesca, l’allevamento l’agricoltura i commerci, la vita. Come ha ricordato a N’Djamena l’ultima sessione del Foro mondiale dello sviluppo compatibile. Gli assassini del lago sono tanti: la sua fragilità ecologica che lo rende dipendente dagli umori delle piogge mai così dispettose e avare come negli ultimi anni, la pressione intensiva degli uomini (negli ultimi quarant’anni la popolazione che abita sulle rive del Ciad è quadruplicata): sospinti dalle siccità tribù e popoli sono venuti ad aggrapparsi alle rive.
E poi l’evaporazione e la dispersione nelle terre aride sono aumentate. Il lago, e il suo principale affluente, il fiume Chari, si insabbiano. Il Ciad, comunque, è sempre stato mutevole, ridotto a pozzanghera o enorme: seimila anni fa misurava 340 mila metri quadrati di superficie e la profondità era di ben 160 metri.
I pescatori si sono fatti saggi, hanno adottato piccole regole per fermare il degrado dell’ambiente circostante; come costruire sbarramenti per impedire la migrazione dei pesci e favorirne la riproduzione. Una legge vieta l’uso per la pesca di reti a maglie troppo piccole, pena la prigione.
I contadini, loro, per ora, sono felici: affondano gli aratri nelle nuove terre. Ma tutto è fragile e la festa presto si cambia in veleno: negli anni scorsi era la siccità che assaliva questi nuovi campi, ora le inondazioni che hanno sepolto sotto il fango le coltivazioni, il mais, le patate dolci, la manioca
Al vertice di N’Diamena sono state presentate diverse proposte per salvare il lago Ciad: inserirlo nel patrimonio dell’umanità, migliorare la coesione sociale per ridurre la vulnerabilità delle popolazioni, accelerare i lavori per regolare il volume dell’acqua e ridurre l’insabbiamento. Ma soprattutto c’ è un progetto di una mole che in passato solo la titanica volontà di potenza di Stalin aveva osato immaginare, capovolgere cioè il corso dei fiumi, dirottare l’acqua dell’Oubangui che scorre nel bacino del Congo a Nord, facendone la vena che tiene in vita il lago Ciad. Gli studi per la fattibilità sono iniziati nel 2009 ma i costi dell’operazione sono immensi. E nessuno può dire come reagirebbe l’ecosistema a un intervento di questa portata.
DOMENICO QUIRICO CORRISPONDENTE DA PARIGI

LA STAMPA 5 DICEMBRE 2010