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Emmanuel_JalIL BAMBINO SOLDATO CANTA PER IL SUDAN
EMMANUEL JAL, IL RAPPER DALLA PARTE DELL’INDIPENDENZA
Jal Jok ha sette anni quando scopre di essere troppo vecchio per i baci.
Sono gli anni Ottanta e nel Sudan lacerato dalla guerra civile è jenajesh come tanti altri, un bambino-soldato. Poi incontra Emma McCune, una cooperante inglese, e si lascia alla spalle quell'inferno: un nuovo nome – Emmanuel Jal – e una nuova vita lo attendono in Kenya. I demoni che tormentavano il sonno del jenajesh sembrano allontanarsi. Ma nemmeno il tempo può nulla contro di loro. Tutt'al più, riesce a stivarli in un vaso di pandora della memoria destinato a schiudersi all'improvviso. Accade anni dopo in un concerto a Nairobi.  
Emmanuel è un astro nascente dell'hip-hop africano. Sta cantando davanti a migliaia di fan. Sono lì per le sue storie in rima. Ma c'è una storia che non ha mai raccontato loro: la sua. Un dubbio gli balena in mente: “Devo dire loro chi sono veramente?”. È un attimo e il vaso si apre: “Ero un bambino soldato”. In quel momento, il suo destino si compie. “Credo di essere sopravvissuto per raccontare la mia storia”, scriverà nel singolo Warchild. Oggi Emmanuel è la faccia di una campagna mondiale per la pace in vista del referendum per l'indipendenza del Sudan del Sud del prossimo 9 gennaio. Una canzone raccoglie il suo ultimo appello: “We want peace”, vogliamo la pace. A pronunciarlo insieme a lui ci sono Kofi Annan e l'ex presidente Usa Jimmie Carter.  
“IL PROSSIMO anno è quello che stavamo aspettando”, spiega Emmanuel. La sua pelle è nera come il caffè, i tratti sono quelli del guerriero Nuer. “La mia gente – continua – può votare per un regime razzista, oppure scegliere l'indipendenza”. L'esito del referendum appare scontato. Per 39 degli ultimi 56 anni, il Sudan è stato dilaniato dalla guerra civile tra gli arabi del nord e i ribelli del sud di origine Dinka e Nuer. Musulmani gli uni; cristiani e animisti gli altri. Circa 3 milioni le vittime. Date le circostanze, la secessione è praticamente certa. Ammesso e non concesso che il regime di Omar al-Bashir accetti il verdetto delle urne.  
È stata Hillary Clinton, segretario di Stato Usa, a lanciare l'allarme lo scorso ottobre: “Il referendum in Sudan è una bomba a orologeria”. Per ascoltare il ticchettio del detonatore basta sfogliare le dichiarazioni dell'élite di Khartoum. Quelle del ministro dell'Energia, Awad Al-Jaz, ad esempio: l'indipendenza del Sud “non può essere permessa”. O del ministro per la Gioventù, Haj Majid Suwar: “Il governo si riservi il diritto di riconoscere il risultato delle urne”. Lungo le 1.300 miglia della frontiera nord-sud le tensioni stanno già montando. L'Onu teme un'emergenza umanitaria con 3 milioni di profughi. Un nuovo Darfur. “Voglio che le persone sappiano – continua allora Emmanuel –. Se il mondo avesse saputo che 6 milioni di ebrei stavano per morire avrebbe fatto qualcosa”. Il suo approccio “preventivo” sta ispirando anche la Casa Bianca, che ha aperto un tavolo con Khartoum: in cambio di un esito pacifico del   voto si sta negoziando il venir meno delle sanzioni economiche decise in sede Onu per la guerra in Darfur.
A BEN VEDERE, l'incentivo economico rappresenta l'elemento di novità nei rapporti tra nord e sud. Negli ultimi dieci anni, il Sudan è diventato la terza potenza dell'Africa per petrolio esportato. E mentre i pozzi sono tutti nel sud, le infrastrutture sono tutte nel nord. Va da sé che una nuova guerra civile romperà i ponti tra nord e sud, anche quelli “petroliferi”, interrompendo quindi il flusso di denaro che vi transita sopra. Entrambi i contendenti rimarrebbero a bocca asciutta, così come rimarrebbero a bocca asciutta gli investitori esteri, a partire dalla Cina, principale partner commerciale del Paese, che si è già unita all'appello per un esito pacifico del voto. Emmanuel spera che la somma di tutte queste voci possa scongiurare   il peggio: “È come per un ladro: se tutti i vicini stanno urlando, lui gira alla larga. Come essere umano – conclude –, devo fare di questo mondo un posto migliore. Voglio essere il messia della mia generazione”. Lui che l'inferno l'ha attraversato, sa che il peggio arriva solo quando gli spari cessano. È allora che il silenzio si riempie delle urla dei feriti. Anche chi ne esce vivo, si riscopre troppo vecchio per i baci. Magari a sette anni. Emmanuel canta perché questo non accada più. Tanto meno dopo il referendum del 9 gennaio.  
Un bambino ferito durante una delle guerre fratricide più sanguinose della storia, quella tra il 1983 e il 2005 in Sudan Tre milioni i morti tra i cristiani. Una persecuzione per il possesso dei giacimenti petroliferi del sud del Paese (FOTO OLYCOM)
di Jacopo Dettoni
IL FATTO QUOTIDIANO 4 GENNAIO 2011