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IL CHACO SOTTO LO SGUARDO DEL MONDO
di Mempo Giardinelli

Mempo Giardinelli, scrittore e giornalista, nato in Chaco nel 1947, dopo 8 anni di esilio in Messico fece ritorno nel suo paese durante il governo di Alfonsin. Ha vinto diversi premi e le sue opere sono state tradotte in diverse lingue. I suoi articoli, novelle, saggi e favole sono stati tradotti in circa 12 lingue.

Argentina - Chaco: Tobas, miseria senza fine


In questo tempo il Chaco attira l’attenzione di tutto il mondo. Stampa e televisione internazionali vengono qui per documentare la strage della denutrizione che affligge migliaia di aborigeni che vivono nei boschi noti, impropriamente, con il nome di El Impenetrable (L’Impenetrabile). La mia collega e amica Cristina Civale, autrice del blog Civiltà e Barbarie, del quotidiano El Clarin, mi ha invitato ad accompagnarla. Non è la prima volta che mi invitano, ma è la prima volta che accetto. Mi sono rifiutato di andarci prima delle recenti elezioni, perché, ovviamente, qualunque impressione scritta sarebbe stata interpretata come una denuncia elettorale.  E io sono convinto, da molto tempo, che la spaventosa situazione socioeconomica che affligge  i popoli originari del Chaco, insieme al loro svuotamento socioculturale, non siano responsabilità di  un governo in particolare tra quelli che si sono succeduti negli ultimi 30 o 40 anni (civili e militari; peronisti, progressisti e radicali), ma di tutti indistintamente.

Prima di tutto ci fermiamo a  Sáenz Peña, la seconda città  del Chaco (90 mila abitanti), per una visita clandestina –né richiesta, né autorizzata- all’ospedale Ramón Carrillo, il secondo e più importante di questa  provincia. Cristina prende appunti e intervista i pazienti indigeni ricoverati nei reparti di Tisiologia, mentre io percorro i corridoi  bagnati dalle numerose perdite d’acqua dei tetti e guardo le pareti rotte, scolorite e sporche, i cortili sporchi, una fogna aperta traboccante vicino alla cucina.
Anche se la facciata dell’ospedale è stata appena dipinta, dietro c’è una discarica a cielo aperto in mezzo a due padiglioni. Vetri e mobili rotti, calcinacci, radiografie e residui ospedalieri  fanno da cornice alle sale dove i pazienti sono soltanto corpi sciupati da malattie quali la tuberbolosi o il morbo di Chagas. Mi impressiona la quantità di gente sul pavimento, non so se siano pazienti o famigliari, che differenza fa. Un’ora dopo, lungo il tragitto verso Juan José Castelli –un paese di circa 30 mila abitanti che si autodefinisce “Portal del Impenetrabile” – lo scoraggiamento e la rabbia prendono il sopravvento nell’osservare ciò che resta di quello che un tempo era il Chaco boschivo. Un tempo era l’impero di “quebrachos” centenari  e di una fauna meravigliosa, adesso sono campi bruciati, terreno sabbioso e desertico, radici dappertutto in attesa delle scavatrici che prepareranno questa terra per il festival della soia che devasta il nostro paese.

 

Entriamo, di nuovo dalla parte posteriore, nell’Ospedale di Castelli, che si suppone offra assistenza al 90 – 95 % degli aborigeni di tutto El Impenetrable. Le immagini che si presentano ai miei occhi squarciano il mio petto, colpiscono le mie tempie: vedo oltre venti persone in condizioni a dir poco disumane. Sembrano ex persone, pelle e ossa, corpi come quelli dei campi di concentramento nazisti.
Una donna di 37 anni, che pesa meno di 30 kg e che sembra avere più di 70 anni, non riesce ad alzare le braccia, non capisce le domande che le fanno. Cinque metri più in là una donna anziana, (o almeno così pare) è appena un insieme di ossa su un letto scarcassato. L’odore acre è insopportabile, le grosse mosche sembrano essere l’unica cosa sana, non si vedono medici e regna un silenzio pesante e accusatore allo stesso tempo come quello dei familiari che attendono vicino ai letti, o sdraiati nel corridoio, anche in questo caso su coperte sporche, fermi come chi aspetta la Morte, quella maledetta che, come se non bastasse, qui ritarda in arrivare.
Sento una rabbia nuova, che cresce, un’impotenza assoluta. Chiedo ad una giovane infermiera che pulisce un apparecchio di vetro se è sempre così. “Sempre”, risponde rialzandosi con uno straccio sporco nelle mani “anche se ultimamente ne hanno portati via tanti, da quando ha incominciato a venire la Tv”.
È magra e ha il viso di una buona persona: in lei si vede più rassegnazione che risentimento. Sono 44 infermieri in tutto l’ospedale ma non sono sufficienti per i tre turni. Lavorano otto ore al giorno, cinque giorni a settimana e prendono circa mille pesos gli universitari e meno di 600 quelli sotto contratto come lei. “Nei giorni di pioggia i tetti filtrano l’acqua e qui diventa un inferno”… dice mentre segnala il legno marcio e le fosse biologiche sature che fa traboccare il luridume dai bagni e nei pavimenti…” E tutto si lava soltanto con l’acqua, nient’altro, perchè non abbiamo candeggina. “
Cammino lungo un altro corridoio e giungo al reparto di ostetricia e pediatria. Una giovane piange di fronte a suo figlio, un mucchio di ossa con due occhi enormi che fa provare dolore. Un’altra giovane dice che non sa cosa abbia la sua bambina, ma non vuole che muoia. Ci sono una ventina di letti nel reparto e in tutti vedo la  stessa cosa: estrema denutrizione, sporcizia nelle lenzuola, migliaia di mosche, desolazione, paura negli sguardi.
Ripartiamo, dopo un’ora di viaggio il quadro diventa ancora più grottesco… Ci fermiamo a Fortín Lavalle, Villa Rio Bermejito, la zona del Ponte La sirena, Il Colchón, El Espinillo…Decine di fattorie di fango e paglia, ruderi infami, dove vivono ammassate famiglie dell’etnia Qom (tobas). Tutte, senza alcuna eccezione, in condizioni disumane..
Queste terre –oltre tre milioni di ettari- furono vendute insieme ai suoi abitanti, gli aborigeni. Sono diverse migliaia e vivono lì da sempre, ma non possiedono titoli, ne documenti, ne sanno come procurarseli. Gli amici del potere ce li hanno e li fanno valere. Il risultato è la devastazione del Impenetrabile: quando il bosco viene tagliato, le specie animali scompaiono, si estinguono. Gli esseri umani anche.
E anche se alcune buone anime di città possono dire il contrario e alcune alte cariche si scandalizzano, all’Impenetrabile, nel Chaco, parole dure come sterminio e genocidio sono reali.
Sfilano davanti ai nostri occhi malati di tubercolosi, Chagas, lesmaniase, bambini pieni di pidocchi che mangiano soltanto farina bagnata in acqua, circondati da cani ossuti e occhi sbarrati come quelli dei loro padroni. Si chiamano Margarita, Nazario, Abraham, María... Quasi tutti dicono di essere evangelisti, dell’Assamblea di Dio, della Chiesa Universale, dei “pentecostali” o degli “anglicani”.
Involontariamente con ironia dico a Yupanqui: “Dio non è passato di qui”.
Al tramonto mi sento distrutto, rotto e riesco solo a scarabocchiare appunti, indignato, cosciente di quanto siano inutili. Durante il viaggio di ritorno vedo un cartellone scolorito dal sole sul muro di una casa: “Con la forza di Rozas, vota lista 651”.
E sulla parete di una fattoria di fango, sicuramente infestata da “vinchucas”, vedo un cuore rosso, come quello dei pastori mediatici brasiliani che dicono “smetti di soffrire”. Sotto dice: “Il Chaco merita di più. Vota Capitanich”.
A circa 400 km da qui, lo scrutinio finale delle elezioni va avanti lentamente, nervosamente. In qualche ufficio pubblico della Sanità di questa provincia si continuerà a negare tutto questo, mentre il governatore si prepara a diventare senatore e vivere a Buenos Aires, ben lontano da qui, come quasi tutti i legislatori.
“Mai prima d’ora, il Chaco e questo paese mi hanno fatto tanto male!!!

19 luglio 2009