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galaxias_03FOTOGRAFATA LA GALASSIA PIÙ LONTANA. SI TROVA A 13 MILIARDI DI ANNI LUCE DA NOI
Quando si formò l’universo aveva appena compiuto 600 milioni di anni dal Big Bang iniziale
MILANO - È un minuscolo punto di luce ma nasconde la galassia più lontana mai fotografata. L’impresa è riuscita al telescopio spaziale Hubble ed è stata confermata dagli astronomi europei che lavorano con il Very Large Telescope in Cile. La sua luce è così lontana che ha impiegato 13 miliardi di anni per arrivare sino a noi viaggiando alla velocità di 300 mila chilometri al secondo. Quando si formò l’universo aveva appena compiuto 600 milioni di anni dal Big Bang iniziale.
PICCOLA - La sua taglia è piccola rispetto alla nostra Via Lattea, che ha un diametro di 100 mila anni luce e ai cui confini noi abitiamo. Quindi contenendo un numero di stelle minore (da un decimo a un centesimo) è poco luminosa e questa è la ragione per cui appare debole ed è stato arduo riprenderla anche per un potente telescopio come Hubble. Però quella poca luce intercettata ci racconta un capitolo importante dell’universo quando ancora era giovanissimo. Classificata UDFy-38135539, il telescopio spaziale della Nasa l’aveva intercettata con la sua Wide Field Camera-3 l’anno scorso impiegando ben 48 ore di esposizione per catturare il suo bagliore. Subito gli astronomi dello Space Telescope Science Institute di Baltimora si resero conto che doveva trattarsi di una galassia molto lontana, ma occorrevano altre misure per stabilire quanto remota fosse. Ora con il VLT sul monte Paranal nel deserto di Atacama sono riusciti nell’impresa precisando la sua distanza, appunto, in 13 miliardi di anni luce.
ORIGINI - Allora l’universo non era molto trasparente e imponenti nubi di idrogeno creavano una fitta nebbia che impediva alla luce di viaggiare indisturbata. Tuttavia i raggi della piccola galassia primordiale dovevano essere così intensi da penetrare la nebbia al contrario di quelli di altre galassie più grandi ma più deboli. «Le foto di Hubble e di VLT», commenta Malcom Bremer della Bristol University e co-autore dell’articolo pubblicato su Natureche racconta la scoperta, «ci aiutano a capire come le isole stellari si formavano e crescevano. Quindi indagheremo altri candidati celesti simili è così amplieremo il panorama dello nostre origini».
Giovanni Caprara
21 ottobre 2010  -  Corriere della Sera