Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Italiano Español English Português Dutch Српски
testa sito 2024
bangladesh_01ACQUA AMARA
Mille fiumi irrorano il Sundarban, area del Bangladesh che è patrimonio dell'Unesco. Ma manca l'acqua potabile. Perché l'uomo ha disboscato la giungla, costruito dighe, distrutto le mangrovie per mettere al loro posto allevamenti di gamberetti. E la gente muore di sete da Sathkhira (Bangladesh).
Chi è abituato ad aprire il rubinetto di casa e metterci sotto il bicchiere potrà difficilmente immaginare la vita nelle Sundarban e lungo la incantevole foce dei mille fiumi che irrorano il delta del Bangladesh sud-occidentale. L'acqua c'è in abbondanza e ovunque, in quest'oasi di apparente paradiso catalogata dall'Unesco come Patrimonio universale. Ma quella dolce per bere e cucinare bisogna conquistarsela col rischio della vita. A separare i villaggi dal prezioso liquido vitale è - oltre all'innalzamento del livello del mare - l'infiltrazione di acqua salata dovuta a numerosi fattori, primo dei quali il disboscamento, la distruzione di molte varietà di mangrovie e la costruzione di piccole e grandi dighe a monte. Quel che è peggio, laddove esistevano campi e pozzi, oggi si estendono a perdita d'occhio i simboli del "genocidio ambientale" che sta dissolvendo una fetta della più grande foresta di mangrovie del mondo: gli allevamenti di gamberetti, la più redditizia tra le attività del delta.
La distanza media dall'acqua potabile nei villaggi del delta lungo il distretto di Sathkhira come Bolabaria, Varni, Ashasuni, è attualmente di due, tre ore di cammino a piedi. E poiché gli uomini sono spesso fuori a pescare o a coltivare la poca terra rimasta, sono le donne e i bambini a doversi sobbarcare l'onere di portare a casa almeno sei brocche al giorno. Ma quando il monsone imperversa e le strade sono letti di fango, trasportare il peso con i piedi e le gambe affondati nella terra diventa un'odissea. Senza contare che spesso l'acqua è talmente sporca che le donne devono anche affrontare file interminabili nei rari depositi dove sono disponibili i filtri per la purificazione.
Molti contadini si organizzano in gruppi e spediscono una barca a prendere l'acqua per tutti verso l'interno delle Sundarban, ma i trasportatori devono poi spingere spesso per chilometri a forza di braccia le fragili imbarcazioni attraverso le lunghe strisce fangose che separano la terraferma dal mare. Qualcuno più ingegnoso ha predisposto grandi contenitori di plastica dove il liquido si può conservare per alcuni mesi. Ma alle elevate temperature tropicali si possono facilmente formare batteri micidiali per l'organismo. Del resto ben pochi possono permettersi il lusso di installare anche un semplice impianto di raccolta, vista l'estrema povertà di queste popolazioni.
Facile comprendere quanto l'acqua potabile sia l'equivalente dell'oro e dei diamanti nelle miniere africane, e anzi più redditizia. Le compagnie multinazionali, in accordo con aziende locali gestite in un modo o nell'altro da potenti gruppi economici e politici nazionali, vendono bottiglie di "minerale" ai contadini che sono stati in precedenza espropriati della loro terra (e dell'acqua per bere). Anche giganti come Coca-Cola e Pepsi partecipano a questo banchetto di miliardi sulle spalle dei più poveri tra i poveri, vendendo bibite fatte con la loro stessa acqua filtrata negli stabilimenti.
Non è un fenomeno esclusivo del Bangladesh, visto che nel mondo - secondo studi recenti del Cnr - oltre un miliardo di persone non hanno sufficiente acqua da bere (50 milioni solo qui). Ma nella terra dei Bangla maledetta dalle alluvioni e poi dalla siccità, dai cicloni e dai governi corrotti, ogni esproprio di risorse locali e una pianificazione economica sbagliata hanno avuto ripercussioni catastrofiche. Con gli occhi del mondo puntati sulle analoghe devastazioni in Amazzonia, speculatori senza scrupoli hanno approfittato della difficoltà d'accesso a queste aree per sfruttarne le risorse lontani da occhi indiscreti, a parte quelli degli impotenti contadini locali. Mentre questi ultimi si procurano da vivere tagliando quanto basta per la sopravvivenza, le grandi compagnie del legname utilizzano macchinari in grado di deforestare centinaia di ettari in pochi giorni, lasciando il resto della devastazione ai boss del mercato di gamberetti e alle loro grandi ruspe che scavano le enormi vasche destinate agli allevamenti. È successo così che dal 5 per cento di foreste del delta registrate negli anni
'90, ne restano oggi al Bangladesh poco più del 3 per cento. Sempre di meno e relegate sempre di più all'interno dell'inestricabile giungla tropicale sono anche le piante di golpata, una palma che fornisce foglie utilizzate per i tetti delle capanne e un'altra serie di importanti fibre vegetali. Per secoli la golpata ha costituito una delle principali fonti di sussistenza, ma i raccoglitori oggi rischiano la vita per andarla a prendere. Le aree dove sopravvive - da una produzione di 70 mila tonnellate nel '94 si è scesi dieci anni dopo a meno di 30 mila - sono infatti abitate dalle celebri tigri reali del Bengala, anch'esse in via d'estinzione e costrette a spingersi verso gli accampamenti dei raccoglitori per cercare di sfamarsi. Il motivo è che numerose specie di piccoli animali - un tempo il loro pasto - sono a loro volta in via di sparizione, come le rare specie vegetali che permettevano la sopravvivenza dell'antico ecosistema. Oltre alle tigri, ci sono ancora cani selvaggi, coccodrilli, cobra reali, tutti letali nemici dei "pendolari" delle Sundarban, che per andare a caccia, a pesca o in cerca di golpata devono mettere nel conto la possibilità di non tornare mai più.
Con un finanziamento della Banca di sviluppo asiatico di 77,5 milioni di dollari nel 2000 fu lanciato un progetto dal nome pomposo: Conservazione della biodiversità nelle Sundarban. Ma dopo tre anni la metà dei soldi erano già finiti e l'iniziativa è stata interrotta. Quando venne rilanciata, non riuscì a invertire la tendenza negativa della deforestazione e salinizzazione dei terreni. Questo e altri progetti scritti a tavolino per la salvaguardia dell'ambiente non hanno mai tenuto presente il "fattore umano", oltre a essere stati controllati da organismi governativi come il Dipartimento delle foreste, definito "uno dei più corrotti del Paese". Ogni raccoglitore, pescatore o cacciatore, infatti, deve pagare una tassa in percentuale al prodotto ottenuto durante i lunghi mesi di trasferta forzata nelle Sundarban. I soldi raccolti a livello locale finiscono nelle tasche dei politici, disposti ad ascoltare soltanto gli unici in grado di pagare, ovvero le grandi compagnie alle quali sono permesse attività in deroga alle leggi.
Facile immaginare che la lotta per la sopravvivenza assuma nel delta dimensioni apocalittiche, e che la carenza di terra e acqua potabile diminuisca di gran lunga la possibilità di sfamare gli abitanti con le proteine di polli, anatre e altri animali d'allevamento, mentre la tradizionale produzione di latte e derivati sia scesa ai minimi storici con la scomparsa dei pascoli per le mucche.
La moltiplicazione degli allevamenti acquatici regala ai contadini solo una volta l'anno una piccola "manna", quando le fosse si disseccano. Nugoli di bambini e donne si aggirano allora tra le zolle fangose alla ricerca dei gamberetti e dei piccoli pesci rimasti senz'acqua, un'elemosina che comunque non è mai sufficiente per nutrire a lungo una famiglia.
Raimondo Bultrini
di Raimondo Bultrini
L'ESPRESSO 21 MAGGIO 2010