Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Italiano Español English Português Dutch Српски
testa sito 2024
GREENPEACE: AFRICA PATTUMIERA DEI VELENI DELL’OCCIDENTE
Partiamo dalla fine: oggi il traffico illegale o semilegale di rifiuti tossici è fatto di televisori pal-color, di ingrigiti monitor di computer, telefonini, frigoriferi.
E-waste, cioè scarti elettronicici di beni prodotti in Germania o in Corea che i consumatori europei rottamano ogni anno per 8,7 milioni di tonnellate. Solo 5,8 milioni vengono raccolti per il riciclo dei metalli e uno smaltimento corretto, il resto per buona parte va a finire dentro container accatastati nei porti del Ghana, della Nigeria e dell’Egitto, spesso classificati come «beni di seconda
mano» o non meglio precisati «rifiuti altri», persino nascosti come aiuti contro il Digital Divide. Così in barba alla direttiva Ue del 2007 e alle normative nazionali, si disperdono nell’ambiente piombo, mercurio, arsenico, cromo e altri metalli pesanti, diossine, plastiche, gas tossici
come i Pcb, nei cimiteri di elettrodomestici delle baraccopoli dei paesi poveri. Un giro di rottami ma anche di soldi, che non solo inquina l’ambiente, alimenta soprattutto il grande network dei traffici sporchi, intersecato al traffico di armi, alla corruzione delle élites africane e agli altri affari sporchi delle ecomafie.
Una rete complessa, globale, - Greenpeace ha cercato di dipanarne nell’arco di trent’anni conunrapporto presentato ieri aRoma- che parte e si innerva sulle trame d’Italia. Ed infatti il rapporto dell’ong internazionale finisce con richieste perentorie indirizzate al governo italiano,
non ad altri, perché attivi una buona volta un coordinamento di forze - procure, 007, ministeri, ispettori sanitari - per reprimere vecchie e nuove rotte delle «navi dei veleni».
Quando l’affare iniziò, alla fine degli anni ‘80 e per diversi anni le istituzioni europee fecero finta di niente: nessuna normativa, pochi controlli. Ancora oggi la Convenzione di Basilea, datata 1989, che proibisce l’export di rifiuti dai paesi ricchi a quelli poveri non è stata ancora ratificata dagli Stati Uniti d’America.
Mentre negli ultimi 15 anni i traffici sono quadruplicati, le strutture per coprire la parte illegale si sono affinate. I nomi dei faccendieri che negli anni se ne sono occupati, quasi tutti d’origine italiana, sono invece spesso gli stessi. C’è il socialista Luciano Spada, l’albanese Jack
Mazreku, E spunta anche il nome dell’avvocato David Mills, sì quello del processo Berlusconi, allora in contatto con l’armatore Attanasio.
Nell’87,anno zero dell’affare, le «navi fantasma» partivano dai porti di Massa Carrara, la Spezia, Livorno - o dal piccolo porto fluviale di Pisa confinante con la base Usa di Camp Darby come denunciato da l’Unità, tra i primi media al mondo ad occuparsene - destinazione Beirut ancora devastata dalla guerra civile o la vicina Romania, porto di Sulina, alla foce del Danubio. Oppure sul delta del fiume Koko in Nigeria, dove dovevano essere buttati i barili tossici della «Karen B» e della «Deepsea Carrier». O ancora nel Mediterraneo e nel Mar Nero a largo della Turchia o davanti alla Somalia, come cercò di appurare anche Ilaria Alpi.
Nelle carte processuali, in gran parte anche quelle italiane, che Greenpeace è andata a spulciare, vengono individuate società con sede a Lugano o nel Lichtenstein, a volte rifiuti che provengono dalla Montedison, sempre collegamenti bancari nei paradisi fiscali, vascelli con registrazioni approssimative che riescono a sparire le proprie tracce e società locali che cambiano nome, a volte complicità con autorità dei paesi smaltitori che autorizzano l’import come nel caso del signore della guerra somalo Ali Mahdi, denunciato nel ‘92 dal funzionario Onu Mostafa Tolba per collusione con la mafia.
Quel che si riesce a ricostruire è spesso frutto di «telephone conversations», intercettazioni telefoniche, anche se poi le inchieste – da Asti a Reggio Calabria – non riescono sempre ad incastrare i protagonisti.
RACHELE GONNELLI
L'Unita' 19 giugno 2010