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L’«ORO NERO» DELL’ECUADOR CHE AVVELENA L’AMAZZONIA
LAGO AGRIO (Ecuador) — Seduto su una sedia davanti alla sua casupola di legno, Nico Medardo Soto Castillo è, a 40 anni, un uomo gracile gracile, esausto.
Parla molto lentamente, muovendo appena le labbra, come volesse fare economia di fiato, che scarseggia. Dice parole amare, come il lago che è lì a due passi e si chiama Agrio, che in spagnolo significa appunto agro. Dovrebbe sottoporsi alla chemioterapia, estremo rimedio per un cancro all'intestino che lo divora dall'86, quando per otto mesi lavorò in un campo petrolifero alle dipendenze dell ’nordamericana Texaco. È accanto alla sua compagna, mentre i due figli stanno facendo il bagno giù nel fiume. Racconta che è stato inutile l'intervento per estirpargli il tumore dal colon, come sarebbe inutile, ora, la chemioterapia.
Sulla terraferma, il conflitto tra la Chevron-Texaco che ha sfruttato al massimo i giacimenti ecuadoriani e le fitte schiere degli ambientalisti determinati a preservare la Selva Amazzonica in tutto il Sud America rimane incandescente. Per questi ultimi, il danno arrecato al Paese dal progetto industriale nordamericano si aggira sui 27 miliardi di dollari. Ne occorrerebbe un terzo per risistemare il terreno e tappare i buchi. La penetrazione di 60 milioni di litri di scarti e scorie dell'oro nero nei polmoni dell'Amazzonia, che lascia presagire un inquinamento di devastanti proporzioni, con conseguenze allarmanti soprattutto per le comunità locali dove i malati di cancro continuano ad aumentare, ha sollevato un uragano di polemiche: ulteriormente alimentato dalla notizia del nuovo progetto di una pipeline di 550 chilometri, da Lago Agrio alle coste del Pacifico. Altre voci sono emerse, insieme a quella di Medardo, e poi si sono fuse in un coro di protesta per i disagi inflitti alla popolazione ecuadoregna dalla Chevron-Texaco, senza per altro dimenticare i benefici socio-economici che ne sono scaturiti. Solo nel 2008, sarebbero state circa 1400 le vittime dell'inquinamento, spacciate dai tumori. «Un crimine contro l'umanità», ha tuonato il presidente dell'Ecuador Rafael Correa. Meno pesante il giudizio di Padre Pablo Gallego, parroco di Lago Agrio, che pure attribuisce al primo pozzo petrolifero (1967) il merito di aver fatto scoppiare nel Paese «una rivoluzione mai vista».
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Quanto segue è il resoconto in pillole di un breve soggiorno a Lago Agrio, alla ricerca di testimonianze su questo arcano lembo di terra abitato dai Cofán e dai Siona-Secoya, due tribù della Foresta. Deprimente l'incontro con Segundo Jaramillo, 65 anni, nella sua casa-palafitta in località Shuara 24, sulla collina. Ci vive con la moglie e un paio degli 11 figli dall'84, quando ci arrivò dal Sud. «Allora — ricorda — la selva era molto densa e profumata, popolata da grandi animali. Poi la contaminazione è stata fatale. Sono morti rettili, bestie e uccelli. Sono morti gli alberi. Poi è toccato a noi uomini, la razza più resistente. Stiamo morendo lentamente di cancro. Non c'è acqua potabile qui e la gente, disperata, la va a cercare nel folto dei boschi». A Shuara 24, la luce elettrica è arrivata solo nove mesi fa. Prima c'era solo quella morbida delle candele. A nord di Lago Agrio si incontrano oggi una quarantina di pozzi, da cui esce un'acqua giallastra definita «di formazione» che attraverso un processo viene separata dal petrolio. Non è l'optimum, osserva Segundo, leader della combattiva organizzazione contadina Primero de Mayo, ma così almeno si placa la sete di tante persone senza correre troppi rischi.
Non deve sorprendere questo continuo richiamo alla prudenza, che ha spinto Donald, la nostra guida, ha comprare qualche litro di acqua pulita per fare il bagno alla figlioletta di 3 mesi. Ogni «piscina» (le buche profonde anche sei, sette metri, piene di grezzo e ora sigillate come tombe) era una trappola mortale. L'elenco delle vittime è troppo lungo per rendere omaggio ad ognuna. Ma le loro vicende sono così tragicamente uguali che cambia solo il nome di chi le ha vissute sulla propria pelle. Sergio, 44 anni, ci fa passeggiare tra i boschi della sua «finca» e, assalito a tratti dal magone, racconta la sua storia: «Papà è morto per un tumore al fegato, la mamma per uno all'utero, mio cognato ha fatto la stessa fine due anni dopo che gli avevano diagnosticato il male». E aggiunge: «Noi non chiediamo soldi o risarcimenti. Vorremmo solo vivere in un ambiente sano. Ma qui non c'è acqua e siamo aggrediti da malattie alla pelle. Il petrolio è stato la nostra disgrazia. Io avevo 10 anni e ricordo le strade lastricate da fango nero che, mentre camminavo, ti inchiodava le scarpe. Ma non avrei mai pensato che fosse la mia "piscina" a provocare tutto quel malessere, avvelenando l'acqua del nostro pozzo».
Per Medardo Robles, della provincia di Orellana, quelli della Texaco «entrarono a casa nostra come fosse terra di nessuno e ci trattarono come schiavi. Non porsero mai ascolto alla voce dei contadini e degli indigeni. Per fare le piattaforme ci piombarono addosso con reparti militari armati, accusandoci di essere dei sovversivi. La foresta è la nostra vita. Dal processo in corso deve scaturire la decisione che chi ha fatto danni rimedi il malfatto. Noi restiamo col nostro dolore, che non potrà mai essere risarcito col denaro».
Nel villaggio con l'incantevole nome di La Primavera, il maestro delle elementari Wilmer Morrota è sopravvissuto alla strage dell'inquinamento che ha fatto una trentina di morti tra bambini, giovani e adulti. Lui se l'è cavata con un fastidioso sfogo alla pelle che ha colpito soprattutto le gambe, ancora gonfie e coi cerotti rossi di sangue. Ma non ha rinunciato a lanciare il suo grido di guerra contro i petrolieri americani, anche se preferisce ai clamori una «crociata silenziosa» contro la società petrolifera Usa, definita la «più disprezzabile» di tutte le compagnie del pianeta. Poco distante, la signora Rosa Péltran piange il marito Pedro, morto poche settimane fa a 65 anni per un tumore allo stomaco, anche se i medici avevano indicato la cirrosi epatica come causa del decesso. L'inconsolabile vedova s’infuria e rovescia il verdetto, riscattando la dignità del suo «Pepito» che — sostiene — «non ha mai bevuto una goccia di vino in vita sua». Era destino che fosse proprio l'acqua ad ammazzarlo. Quale peggior sfortuna, per la signora Marisol Urbano, trovarsi tre pozzi di petrolio proprio davanti a casa. Sua figlia Diana cominciò ad ammalarsi quando aveva quattro mesi e oggi che frequenta la terza elementare può esibire un singolare, triste primato: essere già stata sottoposta a 5 importanti operazioni, l'ultima per un tumore alla testa. Ma i medici non disperano: secondo loro, la bimba ha il 40% delle possibilità di sopravvivere. La madre è perplessa, angosciata, si adira: «Basta con i prelievi di sangue, non la voglio più veder soffrire». Ad appesantire il dramma, va messa nel conto anche la situazione economica della famiglia: il papà se ne è andato da casa lasciando sola la moglie ad accudire i quattro figli (tra cui Diana) e per le visite all'ospedale di Quito partono ogni volta 60 dollari. «Ma che altro potrei fare? — si chiede Marisol - È la mia bambina e voglio che viva».
Sembra di essere su un altro pianeta quando, attraversato l'Aguarico e superata la spiaggia dorata, ci si addentra nel territorio della comunità indigena. Spetta a Emerejildo Criollo, che ne è il Presidente, fare far gli onori di casa. È nato qui e nei suoi ricordi d'infanzia c'è l'epico sbarco della Texaco in Ecuador, la meraviglia e lo spavento per quegli stormi di aerei ed elicotteri che ogni giorno atterravano vicino a casa. Aveva 6 anni. «Per la paura — ricorda — le nostre mamme andavano a nascondersi nella foresta». Ma a questo punto ci si trova di fronte a una situazione imprevista che Don Pablo Galego tenta di chiarire: «Gli indigeni — dice — non avevano mai ottenuto il titolo di proprietari della terra che coltivavano, né un documento d'identità: dal registro risultava soltanto che erano stati battezzati, però tutto il territorio attorno al Rio Aguarico consisteva delle terre ancestrali abitate dai Cofánes. La Chiesa li aiutò perché fosse loro concesso il titolo di proprietà comunitaria. Ma la cosa non era facile: gli indigeni non erano abituati a gestire la comunità con organizzazioni». «La Chiesa — aggiunge il missionario — li aiutò in sostanza a formare una prima organizzazione chiamata Hatum Comuna Aguarico, dove Hatum significa "grande". Fu molto importante perché consentiva loro di garantire la sicurezza del territorio contro eventuali mire espansionistiche dei coloni. E se mai un giorno fosse arrivata la Texaco e avesse occupato la terra per scavare pozzi petroliferi, gli indigeni, con l'attestato di proprietà, avrebbero potuto negoziare le condizioni per un indennizzo».
Dopo soli 3 mesi dall'invasione di perforatrici, ruspe e uomini con l'elmetto giallo in testa, i fiumi erano pieni di petrolio e non si trovava più acqua limpida per bere e lavarsi. I pesci morivano, gli animali affogavano nelle buche e bastarono pochi anni, dal '64 al '73, per trasformare l'Aguarico un tempo verde anche se mai limpido in una lurida biscia nera acquattata tra le sponde. I pochi medici presenti soccorrevano e curavano soprattutto i petrolieri americani e i loro amici, ignorando quasi completamente i locali. A complicare le cose c'era anche il problema della lingua. Solo una minima percentuale della popolazione conosceva altro idioma oltre l'Ai'nghe, il parlato dagli indigeni. Lo stesso Presidente Criollo ammette di avere avuto difficoltà in proposito, dal momento che il suo spagnolo era quello balbettante e incerto dei principianti: «Era il '63 quando cominciai a studiarlo — confessa candidamente — ma i risultati non erano lusinghieri e decisero di mandarmi a Boston in un Istituto specializzato: e lì, in poco più di un mese, riuscii ad apprendere passabilmente il castigliano».
All'origine, Lago Agrio doveva essere un villaggio di poche case tirate su alla meglio per ospitare gli abitanti della zona che vi erano accorsi numerosi per partecipare alla grande avventura dell'estrazione dell'oro nero. Un po' come in Alaska e California ai tempi della febbre dell'oro. I nuovi posti di lavoro garantivano buoni salari. Erano i primo anni 70 e in quel momento la Compagnia petrolifera Nazionale Petroecuador e la consorella Usa Texaco costituivano una grave minaccia per l'ecosistema, unico al mondo, dell'Amazzonia. Ma gli indigeni che ancora abitavano a Lago Agrio o sulle sponde dell'Aguarico, terre ancestrali della tribù dei Cofán, non avrebbero mai tollerato la profanazione del sacro suolo. Per ora, il conflitto si combatte in tribunale fra le due società petrolifere e gli ambientalisti amazzonici che pretendono un «astronomico» risarcimento danni.
Quest'anno è passato in sordina il centenario del massacro del 1910, quando scomparvero nelle piantagioni di caucciù dai 30 ai 40 mila indigeni dei quattro Paesi dell'Amazzonia, Perù, Colombia, Ecuador, Brasile. Data, lascia capire Secundo Jaramjllo, che sarebbe meglio non festeggiare, per evitare malumori o scontri di piazza. «Nessuno dei miei figli — dice — ha mai avuto niente a che fare con i petrolleros e ne sono fiero. Li ho cresciuti bene, nessuno di loro è diventato ladro o ubriacone. Credo in Dio, vado a messa solo qualche volta e non sono molto amico dei preti». Ho avuto anche un curioso incontro a Lago Agrio. È successo quando, con Luigi, sono salito sul primo taxi. L'autista, un giovin signore tra i 30 e i 40, indossava una singolare maglietta sul cui retro stava scritto, a caratteri cubitali, Hitler. Come mai? gli chiedo, pensando a una bravata. «Niente affatto — rispose lui —. In questo Paese affibbiano spesso ai figli nomi di grandi personalità della Storia, non importa quali». C'è dunque qualche altro con un nome simile al tuo? «Si, mio cognato, che si chiama Stalin». Che imbarazzo per due che hanno solo nomi così banali come Ettore e Luigi.
26 ottobre 2010
http://www.corriere.it/Speciali/Esteri/2008/Mo/index22.shtml