Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Italiano Español English Português Dutch Српски
testa sito 2024

LA «VIA DELLA BOMBA» LOTTA ALLO SPACCIO DI «SPAZZATURA ATOMICA» SOVIETICA
TÈ ALL’URANIO, CESIO NELLE NOCI. CACCIA AI TRAFFICANTI IN GEORGIA

L’America investe 50 milioni per i controlli
DAL NOSTRO INVIATO
SADAKHLO (Georgia) — Il varco elettroni­co controlla le emissioni radioattive ed è una porta nel tempo che deve tenere il passa­to dall’altra parte. Dove la Georgia si appog­gia tra l’Armenia e l’Azerbaijan, potrebbero transitare i resti della potenza sovietica, spaz­zatura atomica che i trafficanti cercano co­me un tesoro. In questo posto di frontiera, sei anni fa, Garik Dadayan è stato fermato con 173 grammi di uranio arricchito, quello già pronto per la Bomba. Li portava in una scatola da tè, contrabbandiere più avvezzo a smerciare cognac, caviale e sigarette. Avreb­be dovuto venderlo a un intermediario tur­co e l’acquirente finale «aveva detto di esse­re un musulmano».
Qui la National Nuclear Security Admini­stration americana ha installato dispositivi iper-sofisticati che fiutano anche la polvere. Cinquanta milioni di dollari spesi in Georgia (e altri 400 nel resto del mondo) per provare a fermare lo spaccio di materiale nucleare. Entro pochi mesi, i venti punti di passaggio (tra porti, aeroporti, dogane) dovrebbero es­sere attrezzati. La guerra di un anno fa ha ral­lentato il progetto, i bombardamenti russi hanno distrutto i macchinari a Poti, sul Mar Nero. «Il Caucaso per migliaia d’anni è stato al centro della Via della Seta, corridoio tra Est e Ovest, tra Nord e Sud — spiega Alexan­dre Kukhianidze, direttore del Transnatio­nal Crime and Corruption Center di Tbilisi —. Adesso i trafficanti possono sfruttare l’in­stabilità politica. Il nostro governo di fatto non controlla le frontiere con l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud, le province separatiste».
I paramilitari osseti e i soldati russi stan­no dietro ai sacchi di sabbia, sull’avamposto sventolano le due bandiere. La linea che pas­sa attraverso i campi fino ai palazzi di Tskhinvali, la capitale autonomista, è consi­derata una frontiera amministrativa dai ge­orgiani, un confine di Stato da Mosca. Per i contrabbandieri, è una zona di guerra dove muovere le loro merci. «Forse è più pericolo­so di prima perché è un’area militarizzata, ma i russi sono lì solo per fermare noi — commenta Kukhianidze —. I clan continua­no a gestire l’andirivieni di droga, armi, siga­rette, alcolici. Il materiale atomico non fa al­tro che seguire i canali già funzionanti».
Dalle montagne qua attorno, è sceso Oleg Khintsagov, un russo del Nord Ossezia che se ne andava in giro con 100 grammi di ura­nio arricchito (al 90 per cento) nelle tasche del giaccone di pelle (in quella forma non ha un’alta radioattività) e chiedeva 1 milione di dollari per le due buste di plastica trasparen­te.
Ha promesso il resto (3 chili) alla persona sbagliata, un agente sotto copertura dell’uni­tà speciale organizzata dai georgiani.
La faccia scavata e i baffoni, soprannomi­nato Dudayev per la somiglianza con il lea­der ceceno, Khintsagov sembra un altro con­trabbandiere atomico per caso, ma sul passa­porto avrebbe avuto visti per la Siria, gli Emi­rati arabi e l’Iraq dei tempi di Saddam Hus­sein. Il suo arresto, nel 2006, ha reso ancora più complicati i rapporti tra Mosca e Tbilisi, con i russi che accusano il governo georgia­no di aver montato lo scandalo per screditar­li. «All’inizio l’Fsb ha collaborato con noi — racconta Archil Pavlenishvili, l’investigatore che guida la squadra anti-nucleare —. L’ura­nio arricchito lascia un’impronta. Abbiamo inviato un reperto perché i servizi segreti russi individuassero la provenienza, ci han­no risposto che era troppo poco e poi non ci sono stati più contatti».
Quando si offrono come intermediari, i sei uomini di Pavlenishvili parlano con ac­cento turco, «perché la Turchia è considera­ta il supermercato per questo genere di mer­ce. Da lì, sono convinti i trafficanti, viene venduta verso l’Iraq, la Siria, l’Iran, il Medio Oriente». In realtà in tutte le indagini non è ancora stato individuato (o reso pubblico) un compratore finale. Archil viene dalla scientifica e dall’antiterrorismo, si agita sul­la sedia come se l’adrenalina dei bidoni tirati ai criminali non smettesse di girargli nel san­gue. In queste settima­ne sta coordinando un’altra operazione: qualcuno offre una partita di Cesio 137.
«E’ altamente radioat­tivo, viene usato per le 'bombe sporche'. Mezzo chilo fatto esplodere nell’aria è sufficiente per conta­minare due quartieri di una città americana o europea». Un anno fa, il suo nucleo ha ar­restato un gruppo di georgiani, una banda di pensionati (ex poli­ziotti e tecnici di un istituto di fisica) che volevano venderne 700 grammi. «La mia paura è che i gruppi terrori­stici comprino qui e là, ammassando un grande quantitativo».
Dal suo ufficio al ministero degli Interni, un’astronave di cristallo atterrata alla perife­ria di Tbilisi, Shota Utiashvili analizza le in­formazioni che viaggiano sulla parte oscura della Via della Seta. Fa l’esempio delle banco­note false da 100 dollari, stampate in Osse­zia del Sud e ritrovate negli Stati Uniti, in Russia, in Israele. «I confini sono ancora troppo porosi, la corruzione resta alta». Am­mette: «Il 99 per cento dei trafficanti nuclea­ri prova a piazzare scarti inutilizzabili, pezzi di metallo con qualche radiazione. Eppure non possiamo permettere che l’1 per cento davvero pericoloso abbia successo».
Davide Frattini

IL CORRIERE DELLA SERA 25 OTTBRE 2009