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hambre_08RAPPORTO SOS PER I BAMBINI DIMENTICATI
La sfida è raggiungere chi ha veramente bisogno e colmare così il gap fra membri della stessa comunità
La realtà.
Progressi impalpabili nell’Africa sub-sahariana e in Sud Asia. Gli obiettivi
fissati dall’Onu per il 2015 sono lontani
TORINO - ALBERTO SIMONI
Desta è nata in Africa. E, a dispetto del significato del suo nome, «felicità» in etiope, la sua vita nel momento in cui ha emesso il primo vagito è stata una sfida. Non certo la rincorsa alla felicità incastonata nel suo nome, piuttosto una lotta per la sopravvivenza. Desta è venuta alla luce in uno dei posti più poveri del mondo. Con milioni di bambini condivide un destino crudele: la fatica per sopravvivere, la lotta per avere un futuro, un’istruzione, medicinali e una famiglia. Da donna, non da baby sposa. Di Desta ne esistono milioni nelle zone oscure del pianeta, dall’Africa sub-sahariana all’Asia del Sud. Tutte condividono il medesimo palcoscenico, le stesse quinte: sacche di miseria, di emarginazione, di discriminazioni. Società divise, stratificate e chiuse, talvolta, ermeticamente. Anche laddove, nei luoghi più remoti e più miseri, quelli che le statistiche rubricano come Paesi in via di sviluppo, ci sono gli svantaggiati di serie A e quelli di serie B. Che spesso sono orfani, non vanno a scuola e hanno un’altissima probabilità di aver contratto l’Hiv alla nascita. Superare il primo mese di vita per molti è già una vittoria visto che un bimbo dell’Africa sub-sahariana ha dieci probabilità in meno di un suo coetaneo dei Paesi ricchi di varcare la soglia dei 30 giorni di vita.
Nel suo rapporto annuale, l’Unicef ha tratteggiato, con tanto di numeri, grafici, trend, non solo questa realtà raccogliendo e analizzando mole di dati, ma ha suggerito un’innovativa modalità di azione per alleggerire le differenze fra i bambini del pianeta. Con lo scopo di avvicinare nel 2015 gli Obiettivi del Millennio (Osm), l’ambiziosa agenda fissata dalle Nazioni Unite con la Dichiarazione del Millennio nel 2000.
Ebbene, sul fronte dell’infanzia, dalla prevenzione delle malattia, alla mortalità, all’istruzione, alla povertà, all’accesso a sistemi igienico sanitari, gli obiettivi sembrano, a cinque anni dalla scadenza, quasi tutti fuori dalla portata. Taluni lontani, altri avvicinabili con grandi sforzi. Ma per alcune macroregioni, come l’Africa sub-sahariana e l’Asia meridionale, gli Osm sembrano numeri scritti sulla sabbia.
Il rapporto dell’Unicef parla «di riduzione delle disparità». Ma questa avviene - ammette - troppo lentamente, non certo in tempo per dichiarare vinta la battaglia nel 2015. I numeri sono istantanee drammatiche: nel 2008, l’anno a cui si riferiscono i dati, la metà degli 8,8 milioni di decessi di bambini sotto i 5 anni si è verificata in Africa; sui 100 milioni di bambini che non vanno a scuola i tre quarti vivono nel Continente africano e nel Sud dell’Asia. E poi l’Aids che ha lasciato orfani 14 milioni di bimbi africani. E sempre nel Continente nero solo il 31% usa servizi sanitari. Ci sono passi in avanti rispetto al 1990, l’anno preso come punto di riferimento per la definizione degli Osm, ma sono insufficienti, dicono senza giri di parole all’Unicef.
C’è però ottimismo. E non solo perché taluni indicatori segnano una nota positiva: come la prevenzione di malattie come la malaria (dove però si registrano 50 mila morti all’anno), o l’accesso all’acqua potabile o l’istruzione, dove pur restando altissima la cifra di chi non va a scuola, parecchi Stati hanno moltiplicato gli sforzi per fornire un’educazione di base a tutti. Succede in in Cina almeno dal 1996.
Parte dell’ottimismo dell’Unicef poggia però sul radicale cambio di approccio nell’intervento a favore dei bisognosi. Non basta affidarsi, è il concetto espresso nel rapporto, alle statistiche che offrono una media dello «stato di salute» di un Paese poiché non riflettono le diseguaglianze sub-nazionali. Bisogna invece avere un approccio più mirato - tecnicamente l’Unicef parla di sviluppo equo - che tenga in considerazione fattori quali il luogo di abitazione (città o zone rurali) e il genere, oltre che il reddito familiare, poiché grandi disparità si palesano all’interno dello stesso Paese in via di sviluppo. Inutile, quindi, misurare gli effetti degli aiuti e delle politiche di sostegno riferendosi a medie nazionali. Tutto deve essere più concreto e mirato. Non è solo una questione etica, precisa Anthony Lake, direttore generale dell’Unicef, ma l’approccio basato sull’equità offre indubbi vantaggi anche a livello economico. Portare aiuti e incentivare l’adozione di misure sanitarie, promuovere vaccinazioni, intraprendere politiche di prevenzione e di pianificazione familiare presso i gruppi più poveri (che nella stragrande maggioranza sono ubicati nelle zone rurali e nei villaggi anche dei Paesi più evoluti e ricchi) significa risparmiare denaro e avere nel contempo risultati più efficaci. Tenendo ben presente che dietro un numero si celano milioni di Desta.
LA STAMPA 7 SETTEMBRE 2010