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Giappone-sisma-bambiniI BAMBINI DEL GIAPPONE E LA FINE DEL MONDO
Migliaia di piccoli giapponesi senza famiglia, privati di tutto: è la generazione-tsunami, che dovrà superare lo shock dell´11 marzo
NICOLA LOMBARDOZZI
GIAMPAOLO VISETTI
Quelli della generazione-tsunami non hanno un nome. Migliaia di bambini, nella grande onda, hanno perduto anche l´identità. Alle 14.46 dell´11 marzo 2011 sono rimasti soli e non sanno dire chi sono. Qualcuno è stato accompagnato nei luoghi dove potrebbe essere nato e vissuto, tra macerie che potrebbe riconoscere come proprie. Nessuno ha trovato il segno di qualcosa capace di ricondurlo alla vita interrotta. Quando si hanno meno di quattro anni è difficile declinare le proprie generalità. Si sa che ci sono una mamma e un papà, dei fratelli, ma se non li vedi e non puoi toccarli è come se potessero essere chiunque. Dopo giorni terribili il Giappone scopre, per la prima volta, l´incubo di un esercito di bambini anagraficamente annullati. A questi si aggiungono i sopravvissuti che non conoscono la sorte dei genitori. Forse sono morti, forse dispersi, oppure evacuati in luoghi ignoti, magari vivi, a pochi, incolmabili metri di distanza. È una categoria di individui sospesi nel limbo di un´estrema, incrollabile speranza.
Migliaia di mamme e papà finiti nel nulla. E un esercito di orfani virtuali. A due settimane dal terremoto ora il Giappone scopre l´incubo di una generazione senza nome e senza radici, ammassata nei rifugi. A spaventarli non è il ricordo di quel che è accaduto. Ma l´idea del futuro
Una bambina dai capelli rossi, che si è salvata dentro un bidone, è il simbolo dei sopravvissuti
Adesso devono fare i conti con la sconfitta della fiducia illimitata per il progresso
Non sono orfani e questo non essere nemmeno condannati allo smarrimento dell´amore, si intende giuridicamente condannati, è l´ultimo sadismo dell´oceano che li ha voluti prelevare dal mondo. Nessuno, per anni, potrebbe trovare un´altra famiglia. Ma se qualcuno l´accogliesse, potrebbe un giorno essere sorpreso da una telefonata: «Cerco mio figlio, mi ero salvato». Certe risurrezioni, dopo un lungo tempo, hanno il potere di mietere altre vittime. Anche chi non sa più niente è iscritto alla generazione-tsunami. Bambini, ma pure adolescenti, riemersi in qualche luogo che non hanno mai visto prima, tra persone sconosciute. Recitano con sicurezza i riferimenti essenziali di se stessi. Ma attorno a loro scoprono il vuoto.
Nessuno li conosce, i luoghi che ricordano non esistono più, ogni elemento che confermava la loro appartenenza all´umanità, in un posto preciso e in momento esatto, è perduto. È questa straordinaria capacità di annullamento, anche tra i superstiti biologici, a rendere lo tsunami del Giappone un evento che trasmette il lungo passo dei cataclismi epocali, consegnati alla storia. Nelle terre invase tutto era già chiaro dopo i primi istanti. Nella città di Otsuchi, prefettura di Iwate, le case di 17 mila abitanti sono state schiacciate dalle navi e dalle barriere anti-maremoto. Metà popolazione non si trova più. Una bambina con i capelli rossi, forse già tinti, forse una rarità, si è salvata navigando dentro il bidone in cui stava svuotando l´immondizia. Quando la risacca l´ha sputata su un trancio di asfalto, tra cumuli di indistinguibili detriti, si è tolta gli stivali rossi e li ha stesi ad asciugare sopra il fango. È rimasta seduta, a gambe nude, per tre giorni, immobile anche quando i fiocchi le hanno steso un velo di neve sopra gli occhi chiusi. Sarebbe morta, piantata normalmente al suo posto, se un pescatore alla ricerca di reti per mangiare non l´avesse scoperta vicino a un paracarro, giudicandola defunta. È diventata il simbolo dei "bambini dell´11 marzo". Da due settimane si rifiuta di dire chi è. Lo sa, ma ha paura di rivelare il segreto del suo nome. È un modo per difendersi da un altro assalto del Pacifico, accettando una verità che è decisa, se non a ignorare, almeno a rinviare. Aspetta che qualcuno, dopo essere sparito, si decida a tornare, fornendo le spiegazioni del caso. Altrimenti preferisce non esistere più, fino ad abbandonare la comunità dei nominabili.
La sua idea, nella palestra metà obitorio e metà dormitorio, è che sono gli altri che devono ricordarsi di lei, certificando dall´esterno la sua conservata appartenenza all´umanità. Se nessuno lo fa, meglio consegnarsi alle scosse che non finiscono mai. Il mondo trema ora per gli effetti economici e sanitari delle radiazioni atomiche di Fukushima, il Giappone è paralizzato dal dolore per oltre trentamila vittime dell´onda, Tokyo sopravvive aggrappata alle mezze ammissioni sulla pericolosità delle esplosioni nella centrale che minaccia il suo futuro, ma il genere umano della contemporaneità prende lentamente atto di avere di fronte un nemico diverso e un compito nuovo: una forza capace di cancellare ogni traccia di civiltà; salvare una generazione dall´incubo di scomparire tra i relitti del suo progresso. La fusione dei terrori essenziali, sintetizzata nei bambini delle prefetture squassate del Nordest dell´Honshu, è un terremoto ancora più devastante di quello da cui tutto è partito. Una palude lunga trecento chilometri, nel giro di tre ore, ha risucchiato il mito immanente dell´invincibilità hi-tech. Ha cambiato per sempre il destino della terza potenza industriale del mondo e solo adesso si comincia a comprendere che i suoi figli saranno persone partorite dal vuoto.
Nei centri di raccolta dove si ammassano mezzo milione di sfollati dal mare e di evacuati dall´atomo, non c´è traccia della retorica sull´imperturbabile dignità giapponese. È un mito caro agli stranieri, che esercitandosi con i luoghi comuni dell´Oriente ritengono di provare la consuetudine dei veterani, affrancata dall´emozione. Ma in queste ore, nelle ex città e nei villaggi sommersi, la realtà è che cresce la bomba negata di una società che ha visto quanto può risultare vano cedere alla presunzione di fare dei progetti. Milioni di giapponesi si vergognano di essere vivi, vogliono andare lontano e per sempre, sono troppo stanchi per ricominciare qui, o per continuare a recitare la commedia della propria educazione, ignara del panico, più forte delle carcasse nucleari che alimentano una crescita senza consumi. È questa seconda onda, sollevata dalle placche tettoniche ai neuroni del cervello, che se continua a essere ignorata rischia di travolgere non un popolo, ma l´identità di una nazione. La generazione-tsunami non ha più un nome, ma vuole svegliarsi dal sogno dell´11 marzo riconoscendo che qualcosa è successo. Sconfiggere l´istinto di negare una sconfitta, fatta di errori scientifici e di omissioni politiche, è la sua ultima missione, prima di arrendersi. Shizuka Mikio, 7 anni, sopravvissuto unico della sua famiglia di Kesennuma, è solo un bambino ma lo sa. «Sì - dice - è la fine. Il lavoro del mare lo finirà quella centrale. Però adesso ho da fare». Si alza da un frigorifero sfasciato, raccoglie due bottiglie vuote e inizia a scalare le macerie: «Vado a cercare acqua - dice - . Se tornano i miei devo avere qualcosa per loro».
I bambini di Hiroshima facevano gli origami. Piegavano i fogli per formare piccole gru dalle lunghe ali e confidavano in una leggenda antichissima: costruisci mille gru di carta e i tuoi desideri si avvereranno. I centomila bambini di Sendai, Myagy, Iwate, nelle tendopoli e centri di accoglienza dell´area devastata dallo tsunami e minacciata dalle radiazioni di Fukushima, disegnano gli eroi dei loro manga preferiti, provano a immaginare campi fioriti e case felici che sono scomparsi in un attimo una mattina di marzo. Non conoscono bene i dettagli della tragedia ma hanno visto un orrore che non dimenticheranno. E sentono le stesse paure dei grandi per qualcosa di invisibile e mortale che può arrivare da un momento all´altro. "Radiazioni" è una parola che sentono mille volte dalle tv costantemente accese ma anche nei discorsi dei genitori preoccupati dalle scarse notizie ufficiali, dalla mancanza totale di un sistema di controllo visibile e affidabile.
Psicologi al lavoro negli asili riaperti e nei centri di accoglienza dei profughi
bambinijaponLa paura nascosta nei disegni "Su quei fogli è sparito il rosa"
Gli esperti di Save the children organizzano giochi con cartoncini e pastelli
Nel centro di accoglienza di Sendai, Yasu Haru, 10 anni, grandi occhi neri, confessa: «Abbiamo paura delle centrali nucleari. Dicono che potrebbero esplodere, sarebbe terribile. Cerco di pensare ad altro ma non ci riesco». Attorno a lui è il caos inevitabile di un centro allestito in poche ore in un´ex scuola elementare sfuggita chissà come al disastro. E alle prese con mille problemi organizzativi, mancanza di medicine, viveri, pannolini. I bambini si rincorrono tra le camerate di fortuna e le cucine da campo. Giocano, ridono ma dormono male. «Penso sempre a come tremava tutto, alla fuga, alla mamma che gridava - dice Kazuki Seto, 8 anni - ma qui adesso sono contento, siamo in tanti. Io non voglio più stare solo». Gli specialisti di Save the children, la prima organizzazione internazionale arrivata in Giappone dopo l´emergenza, hanno creato una rete di "spazi a misura di bambino" dentro ogni centro profughi. Se il governo si preoccupa di letti e pasti caldi, loro portano psicologi, giocattoli, palloncini, fogli e pastelli colorati. Il disegno, dicono gli esperti, è una terapia eccezionale per scacciare gli incubi, allentare le tensioni. «Mia figlia non scarabocchia più, e non usa più il colore rosa» racconta angosciata la mamma di una bambina di 9 anni. In ogni caso queste surreali sale giochi nel cuore del disastro servono a dare la possibilità ai genitori di occuparsi di questioni urgenti e fondamentali come recuperare beni perduti, riorganizzare economie familiari sconvolte.
L´effetto a prima vista è quello di un asilo nido come tanti. Stare assieme, disegnare, giocare fa bene ai piccoli profughi di Sendai che superano meglio degli adulti le difficoltà concrete come le code per il cibo, l´impossibilità di lavarsi, perfino un riscaldamento mediocre e i continui blackout. I momenti di buio a volte sembrano quasi occasioni per divertirsi e ridere un po´. Ma gli incubi sono in agguato e arrivano puntualmente la notte. La giovane mamma Michiko Takahashi, appena 22 anni, è molto preoccupata per la sua bellissima Mion, poco più di un anno: «È sempre stata timida ma durante il terremoto è rimasta impietrita, bloccata. Non ha pianto ma è stata per ore a guardare nel vuoto. Adesso piange sempre e poi ha paura di tutti gli adulti, si nasconde. Vuole stare solo con gli altri bambini o con me». Altri genitori raccontano storie tutte uguali di risvegli improvvisi e di lacrime nella notte: «Mamma, è scoppiata la bomba?».
Materiale per psicanalisti che non tutti si potranno permettere in futuro. E che non riguardano solamente i profughi della prima linea. Anche nella capitale che il governo si ostina a dichiarare «totalmente sicura», sono i bambini a tradire la tensione che gli adulti si sforzano di nascondere. Nel quartiere di Urayasu alla periferia Est di Tokyo, il terremoto non ha fatto i danni del nord. Se non fosse per le crepe che si vedono sull´asfalto o per le collinette, alte anche più di un metro, spuntate dal nulla. Qui la vita è tornata normale da un paio di giorni, e anche il grande asilo nido Hinode Hoikunen ha riaperto i battenti. Otsuka Kumiko, direttrice della struttura comunale che serve le famiglie di piccoli impiegati della zona, ha l´aria stanca. Vanta un organico invidiabile: ben trenta maestre specializzate per 175 bambini da 0 a 5 anni. E l´istruzione media dei genitori facilita di molto il lavoro. Eppure dopo la riapertura ha visto cambiamenti che la mettono in allarme. «I bambini sono cambiati - dice - Nessuno, per esempio, vuol tirare fuori le proprie cose dagli zainetti per metterle sui banchi come si faceva prima. Ti dicono: "E se poi dobbiamo scappare"?». Anche qui ci sono problemi logistici, magari non gravi come a Sendai. Manca l´acqua, bisogna usare rudimentali vasini chimici. Ma non è questo il cruccio della signora Kumiko: «Li vedo tutti più attenti. Troppo. Fanno discorsi da adulti, sentiti in tv, sul risparmio energetico o sulle radiazioni, o sulle scosse di terremoto, come se avessero perso di colpo la spensieratezza dei bimbi». Che fare? La direttrice pensa di incontrare i genitori per saperne di più, per elaborare un piano. Ma non è molto sicura: «Il momento è difficile. È inevitabile che i bambini siano i primi a soffrirne».
LA REPUBBLICA 25 MARZO 2011