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L’UOMO CHE SI SALVÒ LA VITA CON UN BATTITO DI CIGLIA
Stavano staccandogli la spina, come lui aveva chiesto. Ma ha cambiato idea e lo ha comunicato.
Con gli occhi dal nostro corrispondente  FABIO CAVALERA
LONDRA — Per tre settimane i medici dell'ospedale Addenbrooke, a Cambridge, le avevano provate tutte. Richard Rudd, coinvolto il 23 ottobre 2009 in un grave incidente motociclistico, non reagiva alle cure e alla stimolazioni. Paralizzato a letto, i monitor non davano segnali di attività cerebrali. Una linea piatta. Quell’uomo di 43 anni era, o appariva, clinicamente morto. Con le lacrime agli occhi, il papà di nome pure lui Richard e i familiari avevano allora chiesto ai sanitari di staccare la spina.
Una scelta drammatica ma nei limiti della legge britannica sull'eutanasia. Lo stesso Richard junior, quando ancora, parlava, lavorava, rideva e discuteva con gli amici, con la nuova fidanzata e con le due figlie, la diciottenne Charlotte e la quattordicenne Bethan, lo aveva più volte detto che se mai si fosse ritrovato in una situazione di incoscienza totale, di infermità, di mente spenta e di insensibilità assoluta al dolore, incapace di tornare alla vita normale, lui avrebbe preferito, anzi decisamente voluto, farla finita e passare di là, senza diventare l'oggetto finale di nuove terapie, senza essere prigioniero delle tecnologie e delle macchine alle quali ti leghi per respirare e dalle quali non ti separi mai. Era chiaro ciò che pensava. In tanti gli avevano sentito ripetere il suo «testamento». Così, dopo parecchi giorni di attesa e di controlli, con le funzioni renali che pure erano lo avevano abbandonato, era arrivato il momento di non sperare più, di bloccare i trattamenti, di aiutare il cuore e i polmoni di Richard a fermarsi perché la mente aveva anticipatamente smesso di lavorare. O, forse, aveva finto di bloccarsi e di addormentarsi per sempre. Già. Pare che sia stato un attimo. Proprio l'ultimo, l'ultimo atto conclusivo dinanzi alle telecamere della Bbc che erano lì per documentare una storia. La storia di un addio. I medici attorno al letto, dinanzi a un paziente che non aveva mai dato una risposta o un segnale, magari impercettibile, della sua presenza attiva, del suo corpo e del suo cervello in grado di reagire. Tutti pronti a certificare la conclusione.
E, invece, è accaduto che le palpebre e gli occhi di Richard Rudd si siano mossi. L'ex conduttore di autobus ha chiesto, nell'unico modo possibile, un modo imprevisto e improvviso, di non morire. I responsabili del reparto di rianimazione, la Neuro Critical Care Unit di Cambridge, per tre volte, con le macchine attorno che ancora riferivano di una condizione ormai perduta, hanno domandato al paziente di rispondere. «Non eravamo mai riusciti a comunicare con lui, il suo cervello era come blindato, i processi cognitivi congelati». Questa volta è partito un lampo. Il professor David Menon, dell’ospedale Addenbroke, ha insistito: vuoi continuare a vivere? Da quando una vettura aveva centrato e travolto il motociclista Richard Rudd, lungo una strada del Lincolshire fra Kidderminster e Spalding, i medici, ogni giorno, avevano provato a strappargli un messaggio che li autorizzasse ad andare avanti con le terapie per tirarlo fuori dal sonno profondo. Ma non ne avevano ricavato nulla. Anzi, la situazione era progressivamente deteriorata. Ora, Richard, proprio all'ultimo istante, aveva risposto sbattendo le ciglia.
Cambia tutto e i medici chiedono conferma. I movimenti degli occhi sono il riferimento: le pupille che vanno a sinistra significano «sì», le pupille a destra significano «no». Il professor Menon le ha viste muoversi a sinistra. Richard Rudd desiderava vivere. Chissà dove ha trovato quella forza disperata. Ma l'ha trovata. E le macchine non sono state sigillate. Era sul punto di chiudere per sempre. Fermo nel suo letto, lo sguardo assente. A distanza di mesi, Richard Rudd, ha compiuto importanti progressi. È stato trasferito in un altro ospedale e si è avvicinato a casa. Muove la testa, percepisce le situazioni attorno, sorride agli scherzi. Purtroppo il suo corpo resterà paralizzato, imparerà però a comunicare usando lingua, occhi e muscoli della faccia. Doveva essere una storia di eutanasia, per la Bbc che era lì in corsia, autorizzata, a riprendere. È diventata una storia diversa. Un documento straordinario sulla difficile esplorazione di quel confine estremo fra vita e morte.
Fabio Cavalera
15 luglio 2010  -  Corriere della Sera


«È USCITA DAL COMA CON UN SORRISO»
Socci e la «rinascita» della figlia
Lo scrittore racconta la storia di Caterina: un miracolo, ora aiuto gli altri
Cuore di babbo: «Caterina è sempre stata uno splendore, fin da piccola. Buona, dolce, silenziosa ». «Caterina, diario di un padre nella tempesta» (Rizzoli) racconta il dramma (lungo un anno) di Antonio Socci, giornalista e scrittore. Cronaca dolorosa di un trauma affettivo (non completamente riassorbito) e viaggio nella fede di un credente.
Tutto inizia a settembre 2009 con l’arresto cardiaco che precipita Caterina, figlia ventiquattrenne dell’autore in un coma di mesi da cui poi si risveglia. Miracolosamente. Emozioni di un padre, misteriose anche per l’indagatore seriale di enigmi cristiani, dai «Segreti di Karol Wojtyla» al «Segreto di padre Pio» fino al «Quarto segreto di Fatima». Eppure scrive Socci «La mattina di quel 12 settembre ero baldanzoso come un bambino e non sapevo che la mia Caterina doveva morire». È solo l’inizio per un credente sottoposto alla prova peggiore: il coma di una figlia. Caterina, oggi, è tornata indietro da quei mesi di buio.
Quasi per caso. Un giorno, nel silenzio protetto di una camera ospedaliera, la madre legge alla figlia un brano del giovane Holden di Salinger. La ragazza è in ascolto e il suo ritorno ha inizio con una risata. Il coma è alle spalle e inizia, così, la riabilitazione. La scelta di scrivere un libro viene soprattutto dalla volontà di testimoniare «ciò che mi ha sostenuto finora, che mi ha dato conforto, coraggio, forza e anche gioia pur fra le lacrime» dice Socci che, per prima cosa, ringrazia «i moltissimi che hanno pregato e pregano per Caterina» (lui stesso ha aperto un blog, oggi molto cliccato, in cui parla della figlia). L’altro obiettivo è quello di trasformare il dramma privato in un gesto di aiuto per gli altri (secondo l’insegnamento cristiano).
I diritti d’autore del volume, è scritto nell’introduzione, andranno a sostegno del Meeting Point International e di Rose Busingye la volontaria che aiuta le ammalate di Aids in Uganda (a cui è dedicato Greater il documentario premiato a Cannes da Spike Lee). Non solo, ma anche «ai ragazzi delle periferie di Lima» perché possano studiare e serviranno a finanziare le adozioni a distanza delle bambine cristiane del Pakistan. Nel nome di Caterina, viva dopo essere morta.
Il. Sa.
15 luglio 2010  -  Corriere della Sera