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planeta_08LA TERRA È MALATA MA NESSUNO VUOLE PAGARE IL CONTO
Braccio di ferro alla conferenza di Cancun. I Paesi ricchi sfidano Cina, India e Brasile sulle emissioni inquinanti: i tagli alla CO rischiano di penalizzare l’economia.
ROBERTO GIOVANNINI ROMA
La Cina Pechino, oggi il primo inquinatore al mondo, teme le interferenze internazionali sui suoi programmi climatici: ma è proprio su questo punto dei periodici controlli condotti da «terzi» che, invece, insiste molto l’altro grande inquinatore, gli Stati Uniti.
Il Protocollo di Kyoto I Paesi in via di sviluppo insistono per mantenere l’unico strumento legale che al momento è in grado di quantificare gli obblighi sulle emissioni di gas serra per tutti i Paesi industrializzati (esclusi gli Stati Uniti che hanno deciso di non ratificarlo).
I gas serra Se finora i programmi di riduzione dei gas serra non sono stati vincolanti, a Cancun si punta alla creazione di nuove regole. In ogni caso gli impegni non bastano ancora a raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a +2 gradi.
La deforestazione Uno dei temi in discussione al vertice di Cancun è quello legato al versamento di compensazioni finanziarie ai Paesi che riducono i tassi di deforestazione. Un accordo era quasi pronto a Copenaghen, ma sono rimaste irrisolte alcune questioni sui fondi.
Il Fondo Verde A Copenaghen i Paesi industrializzati si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi l’anno fino al 2020 per i più poveri. Ma, se alcuni chiedono che siano un’emanazione Onu, altri, come gli Usa, pretendono maggiore indipendenza. E’ una cifra enorme: si troverà?
Le tecnologie Un’altra questione è quella di aiutare i Paesi più vulnerabili ad accedere alle tecnologie che permettono di ridurre le emissioni, come le energie rinnovabili, e di adattare i territori: Cancun potrebbe dare via libera alla creazione di un «Comitato sulle tecnologie».
Le proteste degli ambientalisti
Il vertice di Copenhagen, nel 2009, lo dimostrò in modo eloquente: le politiche sul cambiamento climatico sono un terreno della sfida globale tra le potenze mondiali. Nella capitale danese, dodici mesi or sono, Barack Obama e il premier cinese Wen Jiabao - i leader dei due paesi maggiori produttori di emissioni climalteranti, che sono anche quelli meno disponibili a interventi concordati e vincolanti di riduzione delle emissioni - definirono il «Copenhagen accord» sulla testa dell’Europa. Un documento fondamentalmente vuoto, che stabilì obiettivi ambiziosi (mantenere l’aumento della temperatura mondiale entro due gradi centigradi) senza indicare gli strumenti necessari per conseguirli (la riduzione delle emissioni di gas serra).
A Cancun, in Messico, dove si è aperta la Cop16, non verranno i grandi leader mondiali che tante speranze avevano suscitato (e poi deluso). Nessuno crede che la sedicesima edizione della Conferenza sotto l’egida Onu sul climate change - che entrerà nel vivo dall’inizio della prossima settimana - possa permettere di arrivare a un’intesa globale e vincolante tra tutti i 194 Stati partecipanti per cambiare il modello economico e di sviluppo. E ridurre in modo drastico e accelerato le emissioni di gas serra che stanno sciogliendo i poli e minacciano di produrre conseguenze catastrofiche per i quasi 7 miliardi di abitanti della Terra. Già si guarda alla Cop17 che si terrà l’anno venturo in Sudafrica. E i più ottimisti sarebbero ben contenti almeno di risolvere alcune questioni sul tappeto: un sistema di finanziamento e di trasferimento di tecnologie per accelerare la ristrutturazione «verde» delle economie e per difendere le popolazioni più vulnerabili. Un meccanismo di controllo verificabile delle emissioni. Varare il protocollo REDD+ per proteggere le foreste che aiutano a «raffreddare» il pianeta.
Ma come dicevamo, dietro le discussioni tecniche (e un po’ aride...) di Cancun c’è il braccio di ferro per il potere globale. I paesi ricchi e industrializzati (che hanno prodotto l’80% delle emissioni di gas serra nell’atmosfera) vogliono disfarsi del protocollo di Kyoto, che li obbliga a tagliare i gas serra con tanto di penali. Gli Usa, dopo la sconfitta alle elezioni di midterm dei democratici, non solo non aderiranno mai a Kyoto, ma hanno ormai messo in soffitta la loro (timida) bozza di legge sul clima. In generale, i «ricchi» vogliono che i paesi emergenti non si avvantaggino: le economie di Cina, India, Brasile crescono velocemente, e così anche il volume di CO scaricato nell’atmosfera. Già oggi la Cina ha superato gli Usa. I paesi poveri contano poco: chiedono aiuti, ma nessuno li ascolta. Le mini isolenazioni del Pacifico rischiano 2 tra pochi anni di andare sott’acqua, ma vengono considerate zero. Ai colloqui UNFCCC di ottobre a Tianjin, in Cina, i rappresentanti di Usa e Cina si sono lanciati reciproche accuse. E il barocco meccanismo Onu impone il consenso totale: basta che uno Stato non sia d’accordo, e l’intesa non si chiude.
Questa sfida geopolitica rischia di complicarsi ulteriormente. Nel primo giorno del vertice di Cancun, i rappresentanti giapponesi hanno detto che affosseranno il rinnovo del protocollo di Kyoto se non ci sarà anche un documento che vincoli anche Cina, India e Stati Uniti. Stessa minaccia dall’Arabia Saudita: niente proroga di Kyoto se non ci saranno aiuti finanziari (risarcimenti, in pratica) per i paesi le cui economie sono dipendenti dai combustibili fossili, cioè carbone, gas e petrolio. E lo Sri Lanka (su imbeccata di Cina e India) non firmerà se non sarà sancita la «responsabilità storica» dei paesi industrializzati. Ci vorrebbe un compromesso. Ma sarà dura.
LA STAMPA 1 DICEMBRE 2010