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QUEI GIORNALISTI INDIFESI NELLA GUERRA SENZA REGOLE
Il terrorismo globale moltiplica i rischi dei media
MIMMO CÁNDITO

Quando viene ammazzato un giornalista non vi sono linee d’ombra dentro cui le ragioni di quella morte possano dividerlo dalla sua vita. Syed Saleem Shahzad era un giornalista investigativo, indagava, ricercava, analizzava, scopriva; e finiva per sapere troppo. Perciò andava fatto tacere; ieri lo hanno fatto tacere. Un giornalista che sa diventa un nemico del silenzio, delle trame oscure nelle quali si celano le mille manovre dei poteri che, in guerra ma anche nella storia comune d’ogni giorno, costruiscono la conquista della politica. E il Pakistan di oggi sta in quel territorio ambiguo dove sempre più - nella realtà del nostro tempo - guerra e politica hanno una stessa identità, un territorio traversato dalle formazioni militari e dalle loro operazioni di combattimento ma formalmente fuori dal conflitto e dalle sue restrizioni. È, questa, la guerra asimmetrica, o la «guerra senza limiti» che i due colonnelli cinesi Liang e Xansui disegnarono come la mappa del tempo nuovo, dove il baratro che in passato divideva «il mondo della guerra» dal «mondo della non-guerra» si è andato progressivamente colmando, e nulla più distingue il primo dall’altro.
In questa inarrestabile mutazione delle ragioni della politica di potenza, il giornalismo rischia moltissimo, perché il lavoro dei suoi reporter non ha più alcuna tutela possibile: non è più l’attività di chi resta all’esterno degli avvenimenti, e ne segue e ne racconta gli sviluppi da osservatore distaccato, ma è il lavoro a mani nude di chi si trova a essere ormai diventato parte integrante del «conflitto», un soggetto coinvolto direttamente - che lo voglia o no, che lo sappia o no - nelle ragioni dello scontro e nella lotta che sul campo si danno le forze politiche/militari.
La guerra in Afghanistan aveva avuto finora 96 giornalisti ammazzati. Da ieri sono 97, e poco conta che Syed non l’abbiano ammazzato nella polvere stanca di Kandahar o di Jalalabad ma dentro le strade asfaltate di Islamabad. La sua morte viene assegnata al conteggio numerico della guerra in Afghanistan perché, da quando Bush lanciò l’attacco contro i taleban, ed era l’ottobre del 2001, la frontiera che allora tagliava ancora via dai mujaheddin di Kabul il Pakistan, è diventata oggi una cognizione virtuale, e Af-Pak è il nome che ormai - e non più soltanto nella cifra ufficiale dei documenti militari ma nella stessa analisi delle strategie dell’Asia centrale unisce in una comune identità i due Paesi che stanno sotto la linea dell’Hindokush. E se Syed ammazzato a Islamabad è l’ultima vittima della guerra in Afghanistan, il primo reporter a essere ammazzato nella guerra che proprio in quei giorni si stava scatenando fu, dieci anni fa, l’inviato del «Wall Street Journal» Daniel Pearl, ucciso anch’egli non a Kandahar o Jalalabad ma da questa parte della linea Durand, a Karachi, nel Pakistan dell’Af-Pak. Si pensò che fosse stato rapito, e poi decapitato, perché i fondamentalisti d’una delle tante piccole formazioni terroristiche della galassia pachistana volevano punire in lui la sua fede ebraica; in realtà, Pearl stava scavando dentro le viscere del jihadismo pachistano, e aveva trovato una pista che legava ai servizi segreti pachistani (l’Inter Services Intelligence, Isi) strutture terroristiche connesse agli apparati militari e alla lotta politica nei palazzi governativi di Islamabad.
È la stessa, amara, storia di Syed Saleem Shahzad, un altro reporter che aveva scoperto trame segrete del famigerato Isi con brandelli di Al Qaeda nei comandi delle forze armate pachistane (e se per la cattura, e l’uccisione, di Osama bin Laden i Navy Seals americani si sono ben guardati dal passare informazioni all’Isi, si capisce bene che troppe complicità malcelate rischiavano di far fallire l’operazione). Il tragico filo che, dentro 10 anni di guerra, unisce le storie dei due reporter ammazzati in un giro tortuoso di segreti mortali, non chiude comunque né il lavoro investigativo del giornalismo né i rischi che esso comporta: il giornalismo, quando è giornalismo, scopre colpe e responsabilità, disturba, molesta, infastidisce.
La Stampa 1 giugno 2011