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USAID, SPRECHI UMANITARI
Costosa, poco efficiente e prigioniera di alcune lobby. Questa è la politica d'intervento umanitario del più grande donatore mondiale, gli Usa.
A caval donato non si guarda in bocca, si dice, ed è difficile pensare a qualcosa peggiore dell'ingratitudine. Però se si è generosi con i soldi altrui e facendo il proprio interesse più che quello dell'aiutato, allora ci sono buone ragioni per aprire la bocca al cavallo e anche al suo padrone.
Spreco preferenziale. In inglese la parola "aid" vuol dire aiuto, sostegno ma è anche l'indovinato acronimo dell'Agency for International Development, meglio nota come Usaid, cioè l'Agenzia americana per lo sviluppo internazionale, l'istituzione governativa che coordina i programmi di assistenza umanitaria. Insomma, quando Washington non fa la faccia feroce, lascia campo libero a Usaid perché distribuisca aiuti e speranza a chi ne ha più bisogno. E lo fa, non c'è che dire. Basti considerare che gli Stati Uniti coprono il 65 per cento della spesa mondiale per quanto riguarda gli aiuti alimentari ai Paesi in difficoltà con una spesa annuale di circa due miliardi di dollari.
Se è chiaro il "cosa", non si può dire altrettanto del "come". La gestione degli aiuti alimentari americani nel tempo si è rivelata rigida, ostaggio di logiche che nulla hanno a che fare con la'iuto umanitario e fondamentalmente costosa e fonte di enormi sprechi. Secondo quanto riportato da Newsweek, 60 centesimi per ogni dollaro se ne vanno in spese di gestione. Altre cifre possono dare un'idea. Secondo uno studio del 2006 prodotto dalla Cornell University, ogni anno, i contribuenti americani pagano qualcosa come 150 milioni di dollari per il cibo da spedire alle popolazioni bisognose, ai quali vanno aggiunti altri 150 milioni per la spedizione via mare, una spesa priva di qualsiasi logica, che distrae risorse che potrebbero essere impiegate per nutrire un maggior numero di persone. Responsabile di questo spreco è l'Acp, ovvero l'Agricultural Cargo Preference, e cioè il principio ispiratore del sistema di assistenza concepito per fare gli interessi di alcune lobby, tre gruppi, quelli che insieme costituiscono il cosiddetto Iron Triangle, il triangolo di ferro. Basta esaminarne i tre lati per capire chi e come guadagna dagli aiuti umanitari made in Usa.
Il "triangolo di ferro". La cifra da tenere a mente è una: 75. Secondo la legge americana che regola la materia, il 75 per cento del cibo deve essere prodotto, lavorato e impacchettato negli Stati Uniti. Non solo, almeno il 75 per cento dell'intero carico deve essere spedito via mare e con navi americane. Si capisce meglio, a questo punto, quale sia l'origine degli sprechi e chi ci guadagni. In primis, le società del cosiddetto agro-business. La torta sarà anche grande ma a spartirsela sono pochi commensali. Illuminante, a tal proposito, un dossier redatto nel 2005 dall'Institute for Agricolture and Trade Policy, dal titolo "Us Food Aid: Time to Get it Right". Un po' datato, si obietterà, ma bisogna tener presente che si parla di un settore con interessi così consolidati e protetti dove è cambiato poco niente (nel 2008 l'amministrazione Bush provò ad aumentare la quota di cibo comprato all'estero ma il Congresso affossò la riforma). Anzi, il mercato si è ristretto ulteriormente. Sul fronte dell'agro-business, sono due i nomi da tenere a mente: Cargill e Archer Daniels Midland. Sono loro che si assicurano la maggior parte dei sussidi pagati dalla Farm Service Agency del Dipartimento dell'Agricoltura : insieme a Bunge, controllano oltre il 70 per cento della produzione farinacea, con Conagra dominano il segmento della lavorazione del mais e con Zen Noh si dividono l'80 per cento delle esportazioni di quest'ultimo mentre con Cenex Harvest States sono oligopoliste nello stoccaggio della merce nei porti. Il governo paga loro un prezzo superiore del 70 per cento a quello di mercato per il mais e una media dell'11 per cento per altri prodotti alimentari.
E questa è una prima fonte di sprechi. L'altra, riguarda l'ostinazione nello spedire gli aiuti via mare e qui sono le compagnie di navigazione a ringraziare. Anche in questo caso, poche e fortunate, sussidiate dal Dipartimento della Difesa, 18 negli anni Novanta, 13 nel 2002-2003, anche se quattro compagnie da sole, ancora pochi anni fa, movimentavano l'84 per cento degli aiuti americani e assorbendo il 40 per cento della spesa americana per i programmi di Food Aid. Dov'è la convenienza, ci si potrebbe lecitamente chiedere? Sicuramente, non nel risparmio, dal momento che lo studio del 2005 evidenzia come i vettori americani costassero al tempo un buon 76 per cento in più rispetto a quelli stranieri. Gli obiettivi sono di natura strategica e riguardano, in sintesi, la marina mercantile americana, messa al riparo dalla concorrenza straniera e in grado di difendere la supremazia americana nel controllo degli oceani, cosa che tornerebbe utile in caso di un'improvvisa guerra. Secondo uno studio pubblicato dalla lobby mercantile (Impacts on Us Economy of Shipping Us Food Aid) e citato dall'agenzia Irin, rivedere la politica della Agricoltural Cargo Preference, cioè la filosofia per cui gli aiuti si spediscono via mare e con una flotta americana, porterebbe ad una riduzione di quest'ultima compresa tra il 15 e il 30 per cento, con una perdita di posti di lavoro che oscillerebbe tra le 16 e le 33 mila unità.
Sprechi a fine protezionistici che hanno un costo anche per chi riceve gli aiuti: se gli Usa si presentano con i loro prodotti, recano un danno enorme alle economie di Paesi che spesso hanno un proprio settore agricolo, che va potenziato, integrato in un mercato e che offre prodotti più economici. In questo modo, si arriva al paradosso per cui l'aiuto rischia di avere effetti più dannosi del male da curare. E le ong cosa dicono? Nulla, sono loro il terzo lato del triangolo, meglio note come Pvo (Private Voluntary Organizations); colossi come Catholic Relief, World Vision e CARE, che nel 2001 si assicuravano l'80 per cento di quel miliardo e mezzo di dollari prodotto dal business dell'assistenza. A caval donato davvero non si guarda in bocca?
Alberto Tundo
15-7-10  -  Peace Reporter