Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Italiano Español English Português Dutch Српски
testa sito 2024
ayuda_02LA SCURE DELLA CRISI SUGLI AIUTI UMANITARI
Con le macerie fumanti e i cadaveri ancora caldi, la macchina dell’emergenza si mette in moto che è una meraviglia. Il problema comincia dopo, quando si spengono le telecamere e il disastro del momento sparisce dalle prime pagine. E’ allora che il motore comincia a tossire. Sul campo rimangono un esercito di volontari con pochi mezzi e una marea di disperati con tanti bisogni primari. Comincia il cortocircuito del “vorrei ma non posso”.
Il cuore e il portafoglio. Haiti, 12 gennaio 2010. Un terremoto violentissimo rade al suolo la capitale Port au Prince, uccide 225 mila persone e ne lascia un milione e mezzo senza casa, in mezzo a una strada. Cifre impressionanti, come le immagini che fanno il giro del mondo e scuotono l’opinione pubblica internazionale che risponde subito alla richiesta d’aiuto. Macerie morte e distruzione stringono i cuori e allargano i portafogli. Quando, però, le telecamere si spengono e la memoria si resetta, allora il processo s’inverte, i cuori si allargano e i portafogli tornano nelle tasche. Chiaro il senso del messaggio lanciato lunedì 12 da Elisabeth Byrs, funzionaria dell’Office for Coordination of Humanitarian Affairs, l’ufficio dell’Onu incaricato di coordinare le attività di assistenza umanitaria. “Speriamo che i donatori mantengano fede alle promesse di assistenza e ricostruzione fatte, nonostante la congiuntura economica mondiale”. Per assistere la popolazione colpita dal terremoto, si era stimato all’inizio potessero servire 1,4 miliardi di dollari, cifra ritoccata al rialzo poco dopo, e portata a 1,5 miliardi. A distanza di sei mesi, quel traguardo resta lontano. Fino a questo momento sono stati raccolti 907 milioni di dollari, poco più del 60 per cento della somma necessaria per affrontare l’emergenza in un’ottica di medio-lungo periodo. Ma gli stanziamenti non bastano e le emergenze sempre troppe e finiscono per rubarsi scena e risorse.
Il terremoto di Haiti, ad esempio, ha drenato parte di quel flusso di denaro che fino a quel momento fluiva verso le vittime di un altro dramma, i profughi yemeniti, quasi 250 mila persone messe in fuga dagli scontri tra l’esercito e le milizie sciite nel nord del Paese. Disperati che avevano/hanno bisogno di un tetto, di acqua, di cibo e assistenza sanitaria. Ma anche lì, il problema era già lo stesso: “Siamo seriamente preoccupati per la mancanza di fondi”, raccontava nel febbraio scorso, alla’agenzia Reuters, un funzionario delle Nazioni Unite. “I bisogni sono grandi, da sei mesi gli operatori umanitari stanno assistendo tutti ma adesso siamo a corto di cibo, di scorte e di soldi”, continuava. Al 26 febbraio, era stato raccolto solo il quattro per cento della cifra individuata come necessaria per fornire assistenza ai 250 mila profughi, pari a 177 milioni di dollari. La situazione era talmente drammatica da costringere il World Food Program dell’Onu a mettere in programma una riduzione delle razioni alimentari distribuite a partire da aprile, portandole progressivamente sotto le 450 chilocalorie al giorno.
Tante emergenze, pochi soldi. In questa guerra tra poveri, il paradosso è che la principale forma di assicurazione contro questi disastri è proprio l’entità del disastro stesso. Più è grande, più diventa possibile evitare di impatanarsi. Si prenda il Malawi, ad esempio. Qui il mese scorso sono state contate circa 700 mila persone bisognose di cibo. Il raccolto di mais è stato abbondante, le riserve non scarseggiano eppure è emergenza. Il motivo? Anche qui, la mancanza di fondi per far partire la distribuzione del cibo. Secondo quanto rivelato dal Dipartimento per la gestioni dei disastri del governo locale, non ci sono abbastanza fondi per coprire i costi operativi. Uno scenario desolante molto più frequente di quanto non si pensi. In Pakistan, ad esempio, dov’è in corso l’offensiva dell’esercito nelle aree tribali in cui è forte la presenza di milizie para-qaediste, il copione è lo stesso. Qui si contano quasi un milione e mezzo di sfollati che sopravvivono grazie ai programmi d’assistenza umanitaria. Ma dei 537 milioni di dollari stimati per l’intervento, ad aprile erano stati reperiti soltanto 170 milioni, 100 dei quali stanziati dai soli Stati Uniti, col risultato che le ong hanno dovuto ridurre qualità e quantità del loro intervento in diversi campi, dall’assistenza all’infanzia a quella sanitaria e alimentare.
In Africa, mancano soldi per assistere le tantissime vittime delle guerre etnico-claniche che hanno insanguinato il continente, dalle donne vittime di abusi, ai mutilati ai bambini soldato che dovrebbero essere reinseriti nella società. A fine giugno, secondo quanto rivelato dall’agenzia Irin, in Uganda si contavano circa 1500 persone bisognose di interventi qualificabili come piccola chirurgia, ma i soldi bastavano soltanto per intervenire in 300 casi.
Non ultimo, poi, c’è il fronte della lotta all’Aids, alla malaria e ad altre malattie endemiche che in Africa, ma non solo, sono ancora altamente mortali. E’ da febbraio che si registra una contrazione dei contributi degli stati che, pressati dalla crisi economica, tagliano la prima voce che non ha un impatto diretto sulla loro economia e sulla distribuzione della ricchezza all’interno del Paese. Ma fare appello alla generosità dei donatori non basta: è sempre più chiaro che l’intero meccanismo dell’assistenza umanitaria va riesaminato e razionalizzato. Non sono poche le voci, ad esempio, che a proposito del caso del Malawi dove c’è il cibo ma non la rete di distribuzione, indicano come possibile soluzione la distribuzione di risorse economiche in contanti alla popolazione, in modo da garantire a chi ne ha bisogno un accesso diretto al mercato.
E poi c’è il problema della corruzione, un male endemico che drena risorse preziose. Eclatante il caso dello Zambia, Paese che si è visto chiedere indietro i fondi stanziati contro la malaria, proprio a causa della cattiva gestione da parte del governo. Anche qui, i meccanismi di controllo andrebbero rafforzati.
di Alberto Tondo
da peacereporter.net
15 luglio 2010