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niger_uranio_01NIGER, L'ALTRA FACCIA DEL BUSINESS MINERARIO
Non solo risorse e occupazione, in Niger le miniere di uranio gestite da Areva stanno provocando gravi danni ambientali ed economici, come denuncia Greenpeace.
Ad Akokan, in Niger, non conviene respirare a cuor leggero ed è meglio evitare di bere acqua. In realtà, forse sarebbe bene anche non passeggiare per le strade. Akokan è una città tossica, un piccolo villaggio in cui si respira, si beve e si cammina sul veleno. E' questa l'altra faccia della medaglia di quelle miniere di uranio gestite da Areva, che avrebbero dovuto fare da volano all'economia del Paese e invece si sono trasformate in un boccone avvelenato, nel vero senso della parola.
Villaggi tossici. Le accuse al colosso francese, leader nel settore dell'energia nucleare, sono elencate, nero su bianco, in un dossier pubblicato il 30 marzo da Greenpeace, redatto in base ai dati ottenuti dalle ispezioni effettuate lo scorso novembre. Un rapporto che smentisce le dichiarazioni della società pubblica. Areva, già chiamata in causa nel 2007, si era impegnata a bonificare i territori in cui sorgono le miniere di uranio che ha in concessione. Secondo i tecnici della Ong ambientalista, però, quelle bonifiche non hanno mai avuto luogo e il risultato è che nelle città minerarie di Akokan e Arlit, a circa 850 chilometri a nordest della capitale Niamey, 80 mila persone vivono esposte a forti dosi di radioattività, causata dall'estrazione dell'uranio, minerale necessario come combustibile per la produzione di energia nucleare ed impiegato grezzo nella costruzione di armi atomiche.
Ad Akokan è stato registrata nell'aria una concentrazione di radon, un gas naturale tossico, 500 volte superiore a quella normale. Ma qui sono contaminate anche le strade, perché costruite con pietre ottenuto dallo scarto radioattivo della produzione mineraria.
Ad Arlit, invece, quattro campioni su cinque hanno certificato la pericolosità dell'acqua, con livelli di tossicità oltre i limiti fissati dall'Organizzazione mondiale della Sanità.
Secondo Rianna Teule, una delle menti della campagna di Greenpeace in ambito nucleare, "chiunque trascorresse anche meno di un'ora al giorno in questi posti, sarebbe esposto ad una quantità di radiazioni superiore a quella annuale, fissata come limite dalla International Commission on Radiological Protection, riconosciuta per legge in diversi Paesi". Semplificando, in quei distretti è pericoloso fermarsi persino per meno di un'ora al giorno, figurarsi viverci.
Né l'attività estrattiva minaccia solo la salute degli abitanti delle aree minerarie. E' in pericolo, infatti, anche l'economia locale che, soprattutto nel nord-est del Paese poggia ancora sulla pastorizia. Le miniere, che per funzionare hanno bisogno d'acqua, assorbono le già esigue risorse idriche. Per questo, nella regione di Agadez è a rischio la sopravvivenza dei Tuareg, dei Kounta e dei Fula, così come quella di altre popolazioni nomadi che vivono di pastorizia.
La scommessa nigerina. Il Niger, però, uno dei Paesi più poveri del mondo, all'ultimo posto per i parametri fissati dallo Human Development Index, ha scommesso sull'estrazione dell'uranio e in particolare su Areva che, presente con le sue due sussidiarie, Somair e Cominak, è il più importante partner commerciale e la più grande fonte occupazionale dello stato africano, dal quale ricava oltre la metà della sua produzione di uranio. Per il governo nigerino, insomma, le miniere sono una risorsa preziosa e non conviene stare troppo a sottilizzare: una eccessiva fermezza nei confronti delle compagnie straniere in tema di difesa dell'ambiente e della salute della propria popolazione, potrebbe provocare una fuga delle società minerarie verso altri lidi. Proprio quel che il Niger teme come il peggiore dei mali, visto che solo nel 2009 ha autorizzato l'avvio di 139 progetti di ricerca per l'individuazione di nuovi siti a compagnie canadesi, cinesi e australiane. Di sicuro c'è che una terza importante miniera vedrà la luce tra il 2013 e il 2014, a Imouraren, per il quale Areva avrebbe previsto un investimento di quasi due milioni di dollari. Un giacimento enorme - uno dei più grandi bacini uraniferi del mondo, si legge sul sito della compagnia francese che nel 2009 è salita al primo posto tra i produttori di uranio - che potrebbe restare produttivo per oltre 35 anni.
Ma il Niger è in buona compagnia.
Il trend africano. L'intero continente africano, più in generale, può vantare un'imponente ricchezza del sottosuolo, su cui siedono governi deboli e facilmente corruttibili. Un binomio che fa gola a chi ha capitali da investire
Si trovano in Africa, ad esempio, due delle quattro nuove miniere di uranio aperte tra il 2006 ed il 2009: Langer Heinrich, in Namibia, e Kayelekera, in Malawi.
Il 20 per cento circa della produzione mondiale di uranio nel 2008 proveniva dall'Africa, in particolare da Namibia, Niger e Sudafrica, ma in futuro la cifra è destinata a crescere, dal momento che nei prossimi anni nuovi impianti minerari saranno aperti nella Repubblica Centrafricana, in Namibia e in Botswana, dove negli ultimi anni sono state concesse 138 licenze esplorative, 112 delle quali nell'area del Central Kalahari Game Reserve, dove vivevano i Boscimani, prima che il governo li espellesse, nel 2002. Erano d'intralcio al progresso.
Tre Paesi in cui Areva è presente, così come in Mozambico, attraverso la sua sussidiaria Uramin, società britannico-canadese acquisita nel 2007, un consistente pacchetto delle cui azioni (il 49 per cento) è stato poi rivenduto alla cinese Cgnpc. Se si considera che il colosso francese ha miniere anche in Namibia e Gabon e che conduce esplorazioni o si accinge a farlo in Algeria, Ciad, Congo e Libia si comprende quale sia la sua forza in Africa, continente dove sta scoppiando la febbra mineraria.
L'ultima arrivata è la Tanzania, con due importanti depositi di ossido di uranio individuati nel centro e nel sud del Paese, per un peso pari a oltre 25 mila tonnellate, vale a dire 2,2 miliardi di dollari, su cui metteranno le mani le australiane Mantra Resources e Uranex Resources.
Alberto Tundo
26 aprile 2010  -  Peace Reporter